Alcuni lettori mi hanno rimproverato di non aver mai parlato di frutta secca ma soltanto di frutta fresca o di bevande a base di frutta. È vero! Ma la “frutta secca”, quella a guscio come mandorle, noci, pinoli, ha un ruolo nutrizionale con caratteristiche molto diverse sia dalla “frutta essiccata” (troppo zuccherina per un uso abituale), sia da quella fresca di cui tutti auspichiamo un aumento dei consumi.
Secondo le tabelle dell’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione in 100 grammi edibili di frutta secca (cioè al netto del guscio) sono contenute le seguenti quantità di grassi: 50,3% nei pinoli, 55,3% nelle mandorle, 56,1% nel pistacchio, 64,1% nelle nocciole e 68,1% nelle noci. Ovviamente i grassi innalzano molto il valore energetico di questi prodotti e già questo è un problema; tuttavia, si tratta in prevalenza di grassi polinsaturi, tra cui i progenitori (acido linoleico e acido linolenico) delle due serie fondamentali, noti anche come acidi grassi “essenziali”, destinati a svolgere funzioni plastico-protettive e non solo energetiche.
L’equivoco che ha limitato il consumo della frutta secca nasce quindi dal potenziale calorico e dal riferimento che i consumatori fanno rispetto a uno standard di 100 grammi, piuttosto che alla singola razione. Infatti, leggere che 100 g di noci secche forniscono 689 kcal è un dato allarmante per molti, mentre la parte commestibile delle noci è soltanto il 39% per cui le calorie effettive di due o tre noci, mandorle o nocciole, sono compatibili con qualsiasi dieta razionalmente ipocalorica.
Non è un caso che la maggior parte dei vegetariani più rigorosi (i vegani) faccia tutto l’anno un uso regolare della frutta secca, in quanto anche poche decine di grammi di frutta secca garantiscono l’optimum di particolari nutrienti che potrebbero scarseggiare in diete rigide. Negli ultimi anni la letteratura scientifica ha riportato diverse segnalazioni sui possibili vantaggi di un uso moderato ma continuato di frutta secca, con indicazioni che vanno dalla stipsi all’insulino-resistenza, dall’apporto di flavonoidi, componenti fenolici e isoflavoni, fino alla presenza dei decantati acidi grassi della serie omega-3. Tuttavia, servirebbero degli studi più ampi e di maggior durata, fermo restando che esiste anche qualche controindicazione, soprattutto nei colitici e per i soggetti che hanno già accusato “intolleranze” verso specifici alimenti. Non per niente le arachidi, ovvero le noccioline americane, sono al primo posto fra i cibi a rischio di intolleranza.
Eugenio Del Toma