Le donne sono storicamente esseri prigionieri, ed è per questo che il viaggio è uno dei modi più simbolici e potenti per affrancarsi dalla loro condizione: viaggiare per una donna è un atto fondatore, equivale a dire: vado dove voglio, appartengo solo a me stessa. (Lucie Azema, “Donne in viaggio”, Tlon Edizioni)
Questa riflessione di Lucie Azema, letta nel saggio che racconta “storie e itinerari di emancipazione” ripercorrendo la storia sociale delle donne viaggiatrici, si è messa in dialogo, nella mia mente, con due questioni fondamentali: soldi e violenza di genere. Per poter viaggiare, bisogna avere la disponibilità economica e ben sappiamo che resiste nel nostro paese, e in generale nel mondo, una diseguaglianza retributiva di genere (secondo l’Istat tra il 17,7 e oltre il 27 per cento nelle posizioni dirigenziali). Come questo abbia a che fare con la violenza contro le donne non è un salto mentale troppo difficile: meno possibilità economiche hai, meno hai potere e più rischi di essere in condizione di subire violenza.
La Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, che si celebra dal 2000 ogni 25 novembre, è una ricorrenza istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Aída Patria Mercedes, María Argentina Minerva e Antonia María Teresa Mirabal (nella foto) sono tre sorelle, belle e ardite ragazze nate e cresciute nella Repubblica Dominicana – tra gli anni ’20 e ’60 – sotto la dittatura di Rafael Trujillo: 31 anni di furto istituzionalizzato ai danni dei lavoratori, del blanquismo, pulizia etnica e feroce repressione delle libertà. Si erano battezzate Las Mariposas, le farfalle, e pagarono con la vita la loro dissidenza al regime. Il 25 novembre del 1960, durante un viaggio per raggiungere i loro mariti incarcerati come prigionieri politici, vennero fermate dalla polizia, picchiate, violentate, strangolate, uccise e poi gettate con la loro auto in un burrone. Ed è così che questa triste giornata diventa simbolica.
Mentre scrivo questo pezzo infuriano le polemiche per l’arresto in Iran della giovane travel blogger Alessia Piperno – avvenuto durante le proteste di piazza contro la dittatura della Repubblica Islamica dopo la morte della giovane Mahsa Amini -, incarcerata a Teheran nella prigione di Evin insieme a detenuti politici e dissidenti: “Se l’è andata a cercare. Poteva restare a casa”. Questo il tenore dei commenti più teneri. Lo si fa in casi simili anche con gli uomini, ma con le donne è ancora un’altra faccenda.
La violenza di genere non è soltanto fisica o psicologica: c’è una violenza sociale molto radicata che fa delle donne “esseri storicamente prigionieri” e impauriti: già, perché la paura può essere “il corollario della libertà, una compagna di strada, una protettrice, e mai un ostacolo alla partenza”, ma anche una feroce forma di controllo e oppressione.
Per la prima volta nella storia della Repubblica italiana abbiamo una Prima Ministra. Ci sono voluti 68 governi per arrivarci. Ci piace, non ci piace, innegabile è il dato che sia donna e innegabile è che ciò crea dibattito: è una vittoria, per il femminismo? Lo scopriremo solo vivendo e osservando con attenzione la difesa dei diritti delle donne.