I libri possono prenderci per mano e attraverso le parole, e le immagini, guidarci dall’altra parte della strada o del mondo, nel cuore di conflitti ai quali assistiamo attraverso i media. Proprio ai libri di tre autrici potremmo affidarci per approfondire ciò che sta accadendo in Iran, tra canti di rivolta, ciocche di capelli tagliati e repressione. Molte donne che in tempi diversi hanno raccontato le libertà negate nel loro Paese dopo il 1979, che segna in Iran l’avvento del regime dell’Ayatollah Khomeini e la nascita della Repubblica Islamica, una repubblica teocratica che via via restringerà le libertà individuali di comportamento, di pensiero e di parola, oltre a imporre l’uso del velo per le bambine a partire dai 7 anni.
“Persepolis”, la graphic novel capolavoro di Marianne Satrapi, classe ’69, uscì a Parigi nel 2000 e divenne immediatamente un caso editoriale: un racconto autobiografico ironico e appassionato, sull’infanzia e l’adolescenza dell’autrice tra gli anni ’70 e gli anni ’90 a Teheran (nell’immagine, una tavola), mentre il regime si inasprisce. Satrapi ha recentemente dichiarato che adesso “gli uomini, per la prima volta, sono a fianco delle donne nella lotta femminista in corso nelle piazze dell’Iran, una lotta non tra sessi, ma di un popolo intero per la parità di diritti e la democrazia, di cui il peggior nemico è la cultura patriarcale“.
“Leggere Lolita a Teheran” è il bestseller del 2003 di Azar Nafisi, che racconta la vicenda autobiografica di un’insegnante di letteratura inglese all’Università di Teheran costretta negli anni ’90 a dimettersi dal suo incarico per via della censura. Inventa un seminario segreto in casa propria: sette delle sue allieve più dotate, ogni giovedì, leggeranno insieme a lei le pagine di capolavori proibiti, tra i quali appunto “Lolita” di Nabokov. La letteratura diventa così un ponte per andare avanti e indietro dalle proprie vite ad altre possibili, dalle difficoltà che ciascuna vive nella sua quotidianità sotto il regime, al desiderio di spezzare le catene. Il diritto all’immaginazione, sostiene Nafisi, è un diritto inalienabile ed è quello che dà il coraggio di ribellarsi alle imposizioni.
Tra i simboli della protesta, la più famosa poetessa – e cineasta – persiana, nata e vissuta a Teheran, Forough Farrokhzad (1934-1967), bellissima, talentuosa e ribelle che pagò con la sua vita tormentata la scelta di non sottomettersi alle regole restrittive della società iraniana nella quale era cresciuta. Cantava l’amore e la libertà, e di lei, come recita il titolo italiano del bel libro che raccoglie le sue poesie, “È solo la voce che resta”. Non è una frase triste, e non ha nulla di arrendevole: nella letteratura, le “voci che restano” sono vive e sono capaci di dare la forza a tutte quelle persone che si battono per poter anche loro far sentire la propria, di voce.
Una giovane donna italiana di origine iraniana, l’attivista Pegah Moshir, insieme all’attrice Drusilla Foer, ha portato l’attenzione del pubblico sulle libertà negate del suo Paese attraverso il testo di una canzone composta dai tweet che arrivavano dalle manifestazioni di piazza dopo la morte di Mahsa Amini. In Iran, come in un romanzo distopico, esistono centri di detenzione dove le persone vengono rinchiuse per rieducare i loro pensieri. Mahsa è uscita dal centro di detenzione per essere trasportata all’ospedale in fin di vita. Il giorno dopo è morta, ma la sua voce resta, si leva da tutte le piazze dell’Iran ed è già nei libri.