Chicchi e grani – protagonisti a Imola del Baccanale 2016, dal 5 al 27 novembre 2016 – sono la chiave di volta della storia dell’alimentazione e della cultura del cibo: attorno a questi prodotti si costruirono le maggiori civiltà della storia. Ma perché proprio loro, e non altri? Per una serie di motivi convergenti. Primo, la loro alta capacità nutritiva, a garanzia di sazietà (sul piano quantitativo) e di salute (sul piano qualitativo). Secondo, la particolare attitudine alla conservazione: cereali e legumi, in condizioni ottimali, possono durare anni, a garanzia di sicurezza in un mondo dominato, se non proprio dalla fame, certo dalla paura della fame.
Terzo, la grande duttilità d’impiego: con i grani si può fare davvero di tutto – cuocerli in pentola interi (la grande tradizione delle minestre) o ridurli in farina; la farina, cuocerla direttamente in pentola (la grande tradizione delle polente) o impastarla con acqua e poi cuocerla nel forno, al testo o in mille altri modi (la grande tradizione del pane, della pizza, delle focacce). Tutto questo a garanzia di varietà e di piacere. Giacché non sta scritto da nessuna parte che la necessità escluda il gusto, che il bisogno di mangiare non possa coniugarsi alla ricerca del buono, che non è più biologia ma cultura.
A partire dalle specie selvatiche, disponibili spontaneamente nelle varie aree del mondo, ciascuna civiltà scelse il suo grano: il frumento e l’orzo nelle regioni attorno al Mediterraneo, il sorgo e il miglio nel continente africano, il riso nell’Asia sud-orientale, il mais nell’America centrale. Tutte risorse “naturali”, tutte scelte “culturali”: il grano esiste in natura ma i campi di grano no; le risaie neppure, e i campi di mais nemmeno.
Nulla costringe gli uomini a coltivare qualcosa, se non hanno ritenuto che sia utile farlo. Imbattersi in una spiga di grano non è come decidere di selezionarlo, distinguendolo da altre piante che si decide di scartare – più o meno temporaneamente, perché ogni decisione ha il suo tempo, e può essere contraddetta. Accadde, per esempio, alla segale di essere considerata per secoli un’erbaccia: così la pensavano gli agronomi romani, poi nel Medioevo cambiò tutto, questo grano così resistente alle avversità sembrò utile da mettere a coltura e diventò, in molte regioni europee fra cui l’Italia del nord, il più coltivato in assoluto.
Cultura è scegliere. Su quale prodotto puntare, come trattarlo per farne davvero un cibo (perché nessuno mangia il grano o il riso così come nascono dalla terra), come prepararlo in cucina, che posto dargli all’interno del pasto… Ecco perché Fernand Braudel chiamò questi grani “piante di civiltà”. Attorno a loro si definirono modi di produzione, sistemi sociali, poteri politici, valori simbolici e religiosi. In senso pieno: sistemi di civiltà.