“Patrimonio immateriale dell’umanità”. La definizione, coniata dall’UNESCO, serve a censire e a tutelare i monumenti culturali che, a differenza delle opere d’arte, delle biblioteche o dei paesaggi, non si vedono e non si toccano, ma si nascondono nei gesti, nelle pratiche, nei saperi che le società sanno trasmettere da una generazione all’altra e che non possono racchiudersi in uno scritto o in un oggetto, ma consistono semplicemente nel fare (nel saper fare) qualcosa.
Anche la cucina, che pure è fatta di cose, di beni concreti e tangibili come il cibo e le bevande, in qualche modo è parte di questo “patrimonio immateriale”, per i saperi innumerevoli che mette in gioco: valori simbolici legati al cibo, strategie per comporre un menu, modi di stare a tavola, eccetera. Anche le ricette fanno parte di questo patrimonio, perchè danno forma ai prodotti, agli ingredienti, alle “cose” utilizzando saperi impalpabili. Su queste premesse la Francia ha avanzato la propria candidatura per far dichiarare “patrimonio immateriale dell’umanità” la cucina francese. Allo stesso modo, una proposta congiunta di Spagna, Italia, Grecia e Marocco mira a far riconoscere “patrimonio immateriale dell’umanità” la dieta mediterranea.
Confesso che non riesco a entusiasmarmi per queste iniziative. Con tutto il rispetto per la cucina francese, che vanta uno straordinario spessore storico e culturale, fatico a capire perchè proprio quella, e non altre cucine del mondo, abbia diritto a essere tutelata come patrimonio universale. Quanto alla “dieta mediterranea”, è un’espressione – inventata negli anni cinquanta dai dietologi americani – che dice tutto e niente. Classificarla, codificarla mi sembra una sfida impossibile, perchè le varianti locali sono infinite: davvero potremmo sostenere che il modello gastronomico italiano e quello greco, o spagnolo, o marocchino sono analoghi al punto da poterli ritenere un tutt’uno? O non dovremmo piuttosto pensare che il segreto della “dieta mediterranea” stia nei ritmi di vita e di lavoro, nella capacità di instaurare un rapporto positivo con l’ambiente? In una realtà, insomma, più esistenziale che gastronomica, e quindi difficilmente esportabile? O forse si tratta di vendere al mondo i nostri prodotti? Ma allora il problema è commerciale, non più culturale.
Infine, ogni cucina è frutto della storia, e dire “dieta mediterranea” fa pensare che la geografia, non la storia sia alla radice di tutto: ma le cucine che nei secoli si sono sviluppate attorno al Mediterraneo hanno raccolto esperienze da tutto il mondo, mettendo insieme profumi e sapori d’Oriente e d’Occidente. Il pomodoro – tipico ingrediente delle cucine mediterranee – non è forse venuto dall’America?
Non ho le idee chiarissime, ma qualcosa non mi torna.

Massimo Montanari

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