Uno dei fondamenti della cultura alimentare tradizionale era il rispetto dei tempi “naturali”, l’idea che il cibo migliore, più saporito e più sano fosse quello “di stagione”. Lo dicono i proverbi, fin dal Medioevo: «Il frutto non è buon fuor di stagione», «Ogni frutto alla sua stagione» (per dire, anche in senso figurato, che le cose vanno fatte al momento giusto). Lo dicono i medici: il più antico trattato di dietetica (e di cucina) del Medioevo europeo, scritto dal medico bizantino Antimo, raccomanda di consumare solamente pere «ben maturate sull’albero», altrimenti «possono nuocere gravemente». Al medesimo principio si ispirano i provvedimenti di legge: un bando bolognese del 1580 proibisce agli ortolani di far maturare «violentemente» i meloni, senza aspettare «il beneficio del tempo e della natura», perché questo metterebbe «in gravissimo danno e pericolo» la salute dei consumatori.

Però, la tradizione insegnava anche a “intrappolare” le stagioni, mettendo al sicuro risorse che in certi momenti dell’anno erano abbondanti, e che poi sarebbero mancate. Diverse tecniche di conservazione – mettere i prodotti sotto sale, olio, aceto – furono escogitate nel corso dei secoli per “correggere” il ritmo delle stagioni e far fronte alle difficoltà dei mesi più magri. Mettere in vaso i pomodori, come si fa durante l’estate, o preparare marmellate di pesche, di albicocche o di ciliegie, è un gesto che tiene insieme il gusto della stagionalità (perché si usano i prodotti di stagione) e il piacere della conserva domestica, che affianca o sostituisce quelle industriali, apparse a iniziare dal XIX secolo.

In principio fu il cibo in scatola, e qualcuno ricorderà lo slogan della casa Cirio, la più antica industria conserviera italiana: “Come natura crea / Cirio conserva”, a significare che l’intervento dell’uomo – in questo caso l’industria – blocca il processo naturale consentendo di superare il limite della stagionalità. Poi sono venuti i surgelati. Poi altri sistemi ancora. In ogni caso, le tecnologie moderne ripropongono in chiave nuova una cultura antichissima che vale la pena di custodire. Una cultura (aggiungiamo) che come per magia riunisce due percorsi della storia dell’alimentazione solo in apparenza divergenti: quello della fame e quello del piacere. Perché sono la fame, il bisogno, la necessità a suggerire l’invenzione delle tecniche di conservazione del cibo. Ma il cibo che si conserva, oltre a garantire la dispensa di famiglia, serve egregiamente al mercato, potendo viaggiare a lungo e lontano. Ecco dunque fiorire le tante “specialità” che arricchiscono il patrimonio gastronomico di un paese: soprattutto salumi, formaggi, sottoli, sottaceti, confetture – prodotti di conserva che oltrepassano le stagioni.

Ecco come l’uomo ha imparato a giocare col tempo, coordinata “naturale” della nostra esistenza, che assume però, in questo modo, una dimensione totalmente culturale.

Tag: stagionalità, conserve, conservare, surgelati

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