La povertà è infelicità. Quindi sarà per forza un’esperienza anziché una condizione economica (W.T. Vollmann)
Di cosa parliamo quando parliamo di povertà? Di una soglia di reddito con tutto ciò che a questa soglia è connesso (cibo, bollette, trasporti, consumi, tempo libero), di dignità, vergogna, vulnerabilità, dolore, disperazione? Di tutte queste cose insieme. Diverso è poi essere nati poveri e considerare tale condizione “normale”, impossibile da mutare, oppure esserlo diventati di colpo. Leggere i dati diffusi dall’Istat lo scorso 8 aprile relativi alla povertà in crescita in Italia nel 2020, “l’anno nero della pandemia”, non fa stare comodi. Sono dati che disegnano un paesaggio cupo: 5,6 milioni di persone in Italia vivono in povertà assoluta – un milione in più rispetto all’anno precedente – una persona su 12. Ma leggere i dati non corrisponde a comprendere l’esperienza della povertà. Si può avere un reddito basso (il limite procapite è stabilito sugli 837 euro al mese) ma, ad esempio, avere un immobile di proprietà o in usufrutto e un sostegno economico costante cambia di molto le cose rispetto a una famiglia, magari monoreddito, che deve mangiare e pagarsi affitto o mutuo.

È difficile confrontarsi con la povertà assoluta da un punto di vista privilegiato: si corre il rischio di diventare “ricchi che osservano la vita dei poveri”, in bilico tra estetizzazione e senso di colpa. Sul tema della povertà molto è stato scritto sia da autori che quella povertà l’avevano vissuta sulla loro pelle (come Jack London e George Orwell), sia da autori che invece l’avevano osservata intorno a sé e l’avevano poi analizzata nei loro testi e mostrata con le loro fotografie come “Sia lode ora a uomini di fama” (1941) di J.Agee e W.Evans. Lo scrittore americano W.T.Vollman, nell’introduzione al suo reportage “I poveri” uscito per Minimux Fax a settembre 2020, ne cita molti. Ed è legato alla celebre pubblicazione di fotogiornalismo del 1890 “How the other Half Lives” di Jacob Riis che mette insieme scrittura e immagini per documentare la vita negli slums newyorchesi (nella foto) alla fine dell’Ottocento. Riis, un immigrato danese che si era ritrovato a vivere in quegli slums, divenne reporter per la polizia di N.Y., acquistò una macchina fotografica e documentò ciò che vedeva. Il suo lavoro ebbe un impatto fortissimo, Riis fu collaboratore e amico del presidente Roosvelt e contribuì concretamente a far cambiare le cose.

Perché è questo il punto: a chi dovrebbero interessare racconti e fotografie di povertà? A un povero no di certo, e a un ricco potrebbero dispiacere: la povertà fa paura, è lo specchio nero della cattiva coscienza, e poi, se aumenta in modo esponenziale vuol dire che molti non sono al sicuro. Oggi, i reportage sui nuovi poveri a cosa servono: a spaventarci, scuoterci, farci percepire l’ingiustizia? L’obiettivo dovrebbe essere quello perseguito da Riis: mutare le condizioni per molti, far muovere opinione pubblica e politica. Dovrebbero servire a porci domande sullo stato di salute delle politiche di protezione sociale riguardo occupazione, precarietà, perdita del posto di lavoro e salute fisica e mentale dei cittadini.

Il Covid ha preso tutta la scena, e la paura legata al virus ha sovrastato ogni altra cosa. Ora forse pensiamo che i vaccini risolveranno ogni problema e tutto tornerà com’era prima. Probabilmente non sarà così. E dunque, farsi queste domande è più che mai necessario.

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