Al mercatino delle suore Clarisse di Imola, che si tiene da qualche anno in novembre, nei week-end del “Baccanale” cittadino, folle di visitatori irrompono garbatamente nella rigida clausura che caratterizza il monastero. Le suore – secondo una consuetudine condivisa da parecchi luoghi religiosi, che da secoli, in Italia e oltralpe, si distinguono nella produzione di specialità gastronomiche – offrono in vendita le loro confetture realizzate con perizia e fantasia. Gli accostamenti sono insoliti, a volte sorprendenti. In quei barattoli di vetro convivono frutti che “naturalmente” non starebbero insieme. Una confettura, per esempio, di albicocche e mandarini, mescola due ingredienti che appartengono a stagioni diverse, l’estate incipiente e il tardo autunno. E subito scatta un’osservazione: mettere i frutti in conserva è un modo per combattere le stagioni, “fissarle” come in una sorta di paradiso terrestre dove tutto è presente sempre. Nell’Eden non c’erano stagioni, racconta la Bibbia. E non ci sono stagioni nel favoloso Paese di Cuccagna, il luogo in cui la fame non esiste, tutto è a portata di mano e facile da raggiungere. In qualsiasi momento. On demand.
Questa grande utopia dell’immaginario popolare nasce da un desiderio che ha attraversato la storia in lungo e in largo: il desiderio di sicurezza, di stabilità, di certezza. I frutti, in quei barattoli, superano il vincolo stagionale, si incontrano e si mescolano noncuranti del clima, del luogo, del tempo. In altri barattoli, ben protette da un velo di aceto, le verdure si confondono un una “giardiniera” che evoca sì l’orto, ma in qualche modo anche il giardino dell’Eden… È il sogno di un’umanità che vive al ritmo delle stagioni e gode dei prodotti sempre nuovi che esse offrono, ma in quell’avvicendamento intravede anche un pericolo, un rischio da cui proteggersi.
Come ha scritto il sociologo Sineri, la conserva è “ansia allo stato puro”. Ma è anche una speranza, e una scommessa sul futuro: “chi farebbe mai più marmellate, se non avesse la speranza di vivere almeno il tempo di poterle mangiare?”.
Ho parlato di frutta e verdura, ma pensiamo alle carni, ai pesci, e a quelle straordinarie che riescono a ricavarne prodotti di conserva, con l’aiuto del sale o del fumo o del calore, che li trasformano facendone salumi, affumicati, prosciugati (prosciutti…) e via conservando. Pensiamo al fragile e deperibile latte, che si rigenera in gustosi formaggi. Tutto questo è frutto di una “cultura della fame” che ha prodotto sofferenze e paure ma anche straordinarie invenzioni gastronomiche, magari, a un certo punto, destinate ai mercati di specialità e al gusto dei gourmet. Nella storia dell’alimentazione, il mondo della fame e il mondo del piacere non sono così lontani come si penserebbe…