I rifiuti stanno alla fine, i nuovi progetti all’inizio. Siamo abituati a pensare così, fa parte del nostro arrugginito modo di vedere le cose, la vita delle cose, la nostra vita e il mondo. All’inizio l’idea di un nuovo prodotto, qualcosa che prima non c’era, poi la sua realizzazione, con i designer che disegnano, i progettisti che li progettano, gli ingegneri che ingegnano. Poi il nuovo prodotto arriva sul mercato, noi lo compriamo e siamo più felici. Poi il nuovo diventa un rifiuto. E’ la giusta fine, che problema c’è? E se c’è un’emergenza rifiuti, è un problema di qualcun altro. Non di chi crea le cose. A Capannori hanno provato a invertire questo ciclo. Che sembra naturale ma naturale non è. A Capannori, 46mila abitanti in provincia di Lucca, hanno una dolce ossessione per i rifiuti. Si sono inventati Rifiuti Zero, un progetto per riciclare tutto e smettere di produrre rifiuti entro il 2020. Se gli dici che può funzionare solo perché sono una piccola città loro ti rispondono che Rifiuti Zero funziona da anni a San Francisco. Già adesso a Capannori sono a più dell’81% di raccolta differenziata. Hanno incentivato i consumi di acqua di quindici fonti sorgive al posto di quella in bottiglie di plastica; vendono i detersivi ed il latte alla spina con i distributori automatici invece che nei cartoni – piace ai produttori di latte locali e ai cittadini – e i rifiuti sono diminuiti del 20% in quattro anni. Si chiamano politiche di riduzione a monte.
Il Centro di Ricerca Rifiuti Zero del Comune è andato anche a valle, a vedere cosa c’è in quel 19% di rifiuti ancora non differenziabili. Ci hanno trovato molte cialde del caffè. Perché di queste capsule usa e getta ogni anno in Italia se ne consumano un miliardo e a Capannori – espresso più, espresso meno – 750 mila. Che vogliono dire 9 tonnellate di rifiuto indifferenziato. Perché le cialde, un misto di plastica e polvere di caffè, non sono riciclabili: non vanno nell’organico perché lo inquinano con la plastica, non vanno nella plastica che s’inquina con il residuo di caffè.
Alessio Ciacci, l’assessore all’ambiente di Capannori, ha le idee chiare: “Se un oggetto non è riciclabile vuol dire che è frutto di una cattiva progettazione industriale. Che va ripensata, rifatta insieme alle imprese, alle università e al mondo della ricerca. Perché ogni prodotto che viene immesso sul mercato deve essere riutilizzabile o riciclabile, deve poter rientrare nei cicli produttivi invece che finire in discarica o in un inceneritore”.
Così quelli di Capannori hanno scritto alla Lavazza, una delle aziende leader nel settore del caffè incapsulato. Senza nessuno spirito polemico, per fare un percorso condiviso e “ripensare” quelle capsule che viste da Capannori hanno un errore di progettazione. Perché la sostenibilità ambientale riguarda tutti: cittadini, enti pubblici e imprese. E perché queste ultime sono chiamate a farsi carico dei propri prodotti dalla “culla alla tomba”. Le alternative ci sono – scrivono da Capannori: cialde biodegradabili che in 3-4 anni si degradano da sole, capsule ricaricabili, cialde in carta che possono essere compostate – parliamone. La Lavazza ha risposto e ha detto sì, parliamone. Lo hanno fatto. Si può fare.
Massimo Cirri e Filippo Solibello