2020: duecento anni dalla nascita di Pellegrino Artusi. Quando pubblicò “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” (era il 1891 ed era già oltre i settant’anni) il suo progetto era al tempo stesso gastronomico e linguistico: raccontare agli italiani la loro cucina. Con questo progetto, fatto di ricette e di parole, Artusi intendeva contribuire alla costruzione della nuova Italia. Ma non pensò a una improbabile “codificazione” della cucina nazionale, come stava accadendo in Francia grazie all’opera di cuochi professionisti che stabilivano regole, metodi, riferimenti ‘oggettivi’ a cui affidarsi. Artusi invece, interpretando i caratteri più profondi della cultura italiana, si limitò a raccontare quel che si faceva nelle case e nelle piccole trattorie: una cucina domestica che visibilmente contrastava con il “canone professionale” francese.

Da allora a oggi molte cose sono cambiate, ma rimane vivo il cuore del messaggio artusiano, che riflette perfettamente la cultura e l’identità degli italiani, esprimendo non un sapere omologato e codificato, ma saperi molteplici e condivisi. Artusi stesso non lavorò da solo, ma con il fattivo contributo di lettrici e lettori, con cui scambiò centinaia di lettere attivando un meccanismo (oggi lo definiremmo un blog gastronomico) che conferì alla Scienza in cucina un carattere di opera collettiva costantemente in progress – 475 le ricette della prima edizione, 790 quelle dell’ultima, dopo vent’anni di arricchimenti, aggiustamenti, rifiniture.

Artusi non si limitò a raccogliere e rielaborare i saperi gastronomici esistenti, ma seppe guardare lontano e giocare d’anticipo, per esempio assegnando ai piatti di pasta un ruolo centrale nel menù italiano, che proprio allora si configurò nel modo che conosciamo. Soprattutto, ciò che oggi vive del messaggio artusiano è l’idea del fare domestico, artigianale, familiare come dimensione vincente dell’attività di cucina e più in generale del made in Italy. Tra gli anni cinquanta e settanta del Novecento, i successi della cucina industriale trovavano ancora numerosi cantori; addirittura si preconizzava un futuro in cui una pillola avrebbe pensato a risolvere qualsiasi problema o desiderio alimentare. Quell’epoca è finita: la cucina industriale ha vinto molte battaglie ma non quella di accreditarsi come moderna e nuova. Anzi, appare ormai vecchia e superata. Il massimo della modernità oggi coincide con il rilancio di modi e ritmi che sembrano antichi, ma sono in realtà nuovi nella valorizzazione che se ne fa: intendo i sapori dell’orto e dei prodotti freschi, la variazione del cibo al ritmo delle stagioni, la ricerca di prossimità per garantire migliore qualità gastronomica e ambientale… Perfino la sofisticata tecnologia dei ristoranti di grido ama spendere, oggi, questi valori. Perciò li possiamo dire culturalmente vincenti.

Tag: stagionalità, artusi, cucina tradizionale

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