“Junk food” significa letteralmente “cibo spazzatura”, ed è un termine che non ha una sua definizione univocamente accettata: descrive alimenti di cui l’essere umano è decisamente goloso, ricchi di energia ma poveri di nutrienti, che dunque contribuiscono a quell’eccesso di calorie che rende sovrappeso e obesità così diffusi. Il junk food viene frequentemente proposto sotto forma di snack, perché risponde all’impulso nel gratificarsi che l’essere umano può avere in qualsiasi momento. Ci vengono proposti ovunque in modo che, quando ne sentiamo il desiderio, vi sia la possibilità immediata di soddisfarlo prima di un razionale ripensamento: le “macchinette” o “vending-machines” sono l’esempio più concreto della loro ubiquitarietà.
Non ho mai trovato pertinente la definizione dispregiativa “junk”: non descrive la natura di tali prodotti che, al contrario, sono graditi ed acquistati da molti consumatori. In molti “storcono il naso”: in un periodo in cui vi è sensibilità al biologico, al kilometro zero, all’artigianalità, dovrebbe esserci meno interesse per questi cibi ultra-processati. Viviamo in Italia, terra di eccellenze gastronomiche ed io sono di Bergamo, città che produce 30 formaggi tradizionali di cui nove DOP e tre Presidi Slow Food; eppure oggi una paziente, peraltro decisamente attenta alla sua alimentazione, mi “confessa” la sua irrefrenabile passione per un noto snack al formaggio.
La tesi che vorrei sostenere in questo articolo è che non abbiamo nulla da “confessare”, nulla di cui vergognarci se in alcuni momenti preferiamo del junk food rispetto a più pregiati alimenti tradizionali e di qualità; il perché è abbastanza semplice: il junk food è buono. È buono perché ogni dettaglio è studiato: il gusto è testato su centinaia di soggetti in modo da individuare le ricette più apprezzate su base statistica, e vengono curati tutti gli aspetti quali profumo, consistenza, forma, dimensioni, colore, fino al packaging e, naturalmente, rilevanti investimenti in marketing. Possiamo dire che le più sofisticate conoscenze nell’ambito della tecnologia alimentare vengono utilizzate per la produzione di junk food, in un processo che possiamo riassumere come “ingegnerizzazione” del prodotto alimentare.
Dunque la “spazzatura” ha poco a che fare con questa tipologia di alimenti, ed il termine dispregiativo rischia di farci sottovalutare la loro capacità di essere desiderabili, fino a farci sviluppare una dipendenza in casi non così rari. Se alcune tipologie di “junk food” piacciono, ha più senso imparare a gestirli, consapevoli innanzitutto del fatto che potremo far fatica a controllarci nel mantenere il consumo a livelli ragionevoli; questo non è un nostro problema personale, bensì una conseguenza di un progetto ben riuscito di ingegnerizzazione di prodotto. Potremo imparare a gestirne il consumo se saremo consapevoli dei nostri limiti, approcciando tali cibi più con rispetto che con disprezzo; se non ci porremo seriamente queste domande rischieremo di essere vulnerabili, il che solitamente accade nei momenti più stressanti della nostra vita.