La recente divulgazione dei “Facebook files”, prima sul Wall Street Journal poi sul resto della stampa, ha riacceso i riflettori sul tema del rapporto fra social network e benessere psicologico nell’adolescenza. Secondo le rivelazioni di una ex dipendente di Facebook, l’azienda ha sistematicamente ignorato i risultati di studi relativi all’impatto di Instagram (di cui la stessa Facebook è proprietaria) su utenti teenager, perché intervenire sui meccanismi del social network avrebbe ridotto i tempi di permanenza online degli utenti, e con essi i ricavi pubblicitari.
Le ricerche, svolte attraverso questionari di autovalutazione, mostrano che per circa una adolescente su tre l’uso di Instagram, quando ci si sente insoddisfatte del proprio aspetto, abbassa ulteriormente l’autostima. Molte affermano che il loro senso di inadeguatezza è nato proprio su Instagram, confrontando la propria vita con i post di utenti di successo, che siano persone famose o conoscenti la cui vita, riflessa nei post e nelle stories, sembra sempre più bella della propria. Questi effetti vengono attribuiti al focus di Instagram sull’estetica e su un lifestyle idealizzato, e non si rilevano con altri social network, come TikTok, che tende a premiare “chi fa cose”, o Snapchat, in cui il largo uso di filtri “buffi” sdrammatizza il fattore bellezza e perfezione. Attenzione: ci dubbi metodologici sull’uso dei test di autovalutazione, e spesso un bias di fondo porta i commentatori a scegliere, fra i risultati, solo quelli che portano evidenze a supporto delle proprie tesi. Da altri studi, sempre condotti su adolescenti, emerge che l’uso di app per connettersi con altre persone invece può avere anche effetti benefici per la salute mentale, soprattutto quando incontrarsi dal vivo non è possibile.
Indubbiamente aziende come Facebook, che ormai sono elementi imprescindibili dello spazio pubblico globale, non possono sottrarsi alla responsabilità de facto che hanno, anzi hanno il dovere di farsi carico degli effetti collaterali non previsti dei loro algoritmi. Se “chi inquina paga”, chi opera con la materia prima delle relazioni sociali ha il dovere di disinnescare algoritmi tossici, come quelli che distorcono il senso di sé o fomentano odio e disinformazione: non può fare finta di niente per massimizzare i profitti.
Ma è Instagram in sé il problema? I valori (o disvalori) che dominano post e stories sono così diversi da quelli veicolati da certi programmi televisivi, giornali, spot pubblicitari? O sono frutto della stessa cultura che ci impone un culto della performance a cui adeguarci per avere successo? Non risolveremo il disagio adolescenziale limitando per legge le ore di accesso a Internet o ai videogames, come sta facendo la Cina: questo determinismo tecnologico è frutto di una comoda miopia, che ci permette di dare la colpa a un agente esterno da noi, scaricandoci della responsabilità di affiancare, ascoltare, capire i nostri figli e, su una scala più ampia, di agire sui fattori sociali di esclusione ed emarginazione – fattori certi, questi sì, di disagio psicologico – mettendo anche in discussione i modelli culturali dominanti.
Junior e digitale, meglio parlarne insieme Una conversazione a più voci molto interessante, che cerca di andare oltre il facile sensazionalismo: è quella fra Tiziana Metitieri, neuropsicologa dell’ospedale pediatrico Anna Meyer di Firenze, Viola Nicolucci, cyberpsicologa e psicoterapeuta, e Lucia Bottaccio, giovanissima gamer, proposta da Valigiablu. La si può rivedere andando alebego.li/junioredigitale