La storia della ristorazione italiana nel mondo è la storia di un’ascesa sociale e culturale, che ha seguito di pari passo la trasformazione dei movimenti migratori. Per molto tempo (a iniziare dalla grande emigrazione di fine Ottocento) sono stati i poveri a partire, e fra i mestieri che essi si sono inventati c’è stato spesso quello del pizzaiolo o del gestore di trattoria. La tovaglia a quadri bianchi e rossi, la bottiglia di Chianti impagliata sono stati i simboli di questa Italia povera, semplice, familiare. L’oste che celebra con spaghetti e meatballs l’amore fra Lilli e il Vagabondo ne è un’icona fra le più celebri.

Negli ultimi decenni il quadro è cambiato: ai pizzaioli e agli osti si sono affiancati professionisti di qualità, chef che hanno esportato una nuova immagine della cucina italiana, non più confinata in un ruolo di marginalità sociale e culturale, ma “promossa” a leader della cultura gastronomica (oggi, la cucina italiana è la più richiesta e apprezzata nel mondo). Il made in Italy dei grandi sarti è diventato anche quello dei grandi cuochi. Cosa è successo? È cambiata la cucina italiana? Sì, è cambiata in meglio, non c’è dubbio. Si è raffinata, è maturata, è diventata più consapevole di sé stessa. Ma il punto non è solo questo. A cambiare è stato anche il modo con cui gli elementi caratteristici della cucina italiana sono stati oggetto di considerazione. Di fronte alla perfezione professionale di altre cucine (ovvio il riferimento a quella francese) che si sono imposte nel mondo grazie alla loro chiarezza, riconoscibilità, riproducibilità, la cucina italiana si è sempre caratterizzata per una ricchezza disordinata, in qualche modo anarchica, comunque difficile – dico meglio: impossibile – da codificare e ridurre a regole certe. Ma è proprio attorno a questa ricchezza di varianti locali che la nostra cucina è cresciuta, nel segno della condivisione – la condivisione delle diversità – e non di una inesistente (e per fortuna!) omogeneità di modelli. Ciò ha conferito alla cucina italiana un accento fortemente popolare, che ha influenzato anche l’alta cucina. Questo è stato per tanto tempo il suo limite. Ma a un certo punto i valori si sono rovesciati e il limite si è trasformato in risorsa: il gourmet del nostro tempo, anche reagendo al rischio della globalizzazione, chiede esattamente quello che la cucina italiana può dare, a livello di immagine oltre che di realtà: l’attaccamento alle differenze e alle identità locali.

È su questa immagine (e su questa realtà) che i nuovi chef hanno costruito il loro successo: non adeguandosi mai ai modelli di una cucina “internazionale” (come, in qualche modo, era divenuta la cucina francese) ma esportando il modello italiano della diversità, irriducibile fondamento della sua identità.

Tag: pizzaiolo, made in italy, tradizione, identità

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