Qualche tempo fa ho postato su Facebook una domanda molto semplice, nella forma, eppure densa e carica per ciascuno di un differente portato esistenziale: un garbuglio di dati e circostanze individuali, personali, familiari, ma anche sociali e collettivi. “Perché avete così tanta paura di morire?”.  Le risposte sono state moltissime: di questo tema cui ontologicamente non si sfugge, tutti avremmo bisogno e voglia di parlare, ma spesso non ci riusciamo. Per pudore forse o perché morire è considerato, ancora e sempre, lo scandalo più grande. Viviamo rimuovendo questa banale e ineluttabile condizione che è l’essere mortali.

La mia domanda era, come molti hanno colto, legata alla condizione che stiamo vivendo per via della pandemia globale di Covid 19. Frastornati dal terrore, chiusi in casa o costretti sul lavoro, ma agitati dal timore del contagio, incerti di fronte a notizie contrastanti e mutevoli, molti si sono opacizzati in un’attesa fatta di spaventi e rinunce ben oltre le regole delle chiusure, dei lockdown e del coprifuoco. La vita si è impoverita di sogni, inaridita di speranze. Quando la paura paralizza la vita noi però cominciamo a morire prima che il momento sia giunto. Ricordiamo tutti lo choc collettivo dei camion militari che trasportavano le bare a Bergamo, centinaia di persone sottratte all’ultimo abbraccio e all’ultimo sguardo dei propri cari. Mi è tornato alla mente un saggio di un filosofo francese, Philippe Aries, “Storia della morte in Occidente”, sul grande rimosso progressivo del XIX secolo: la morte nascosta dietro i paraventi, negli ospedali, negli hospice dove sostano i condannati da malattie allo stadio terminale. I cadaveri possibile vettore di contagio – o di verità impossibili da dire – da smaltire, bruciare, far sparire, per salvaguardare i vivi. Ma anche in assenza di pandemia, perché la morte contagia lo spirito, dunque abolire il lutto, raffreddarlo, farlo durare poco.

Nella “Lettera sulla felicità”, il filosofo greco Epicuro scriveva: “Perciò è sciocco chi sostiene di aver paura della morte, non tanto perché il suo arrivo lo farà soffrire, ma in quanto l’affligge la sua continua attesa. Ciò che una volta presente non ci turba, stoltamente atteso ci fa impazzire”. Alla fine degli anni Novanta, la cantautrice canadese Alanis Morrissette, nella canzone “Ironic?” racconta la storia di un signore che ha appena compiuto 98 anni, vince la lotteria e muore il giorno dopo, e di Mr Play It Safe che ha paura di volare e non hai mai preso un aereo in vita sua e quando gli tocca proprio, il volo precipita. Che grande beffa, lo scopre anche sir John Falstaff: la vita è una burla e siamo tutti gabbati. C’è una serie tv storica capolavoro inizio anni 2000 che farebbe bene riscoprire: “Six feet under”. Racconta di tre fratelli che si ritrovano a gestire, dopo la morte del padre, l’impresa di famiglia: un’agenzia di pompe funebri. Ogni episodio inizia con un decesso, e la puntata indaga sulla morte nelle sue varie sfaccettature: filosofica, pratica, religiosa. Anche il libro di Mary Roach, “Stecchiti” (Einaudi, 2005) è interessante: qui a essere indagata è la “curiosa” vita post mortem dei cadaveri. Un tema macabro affrontato con approccio rigoroso, ma divertentissimo.

Forse in tempi come questi esercitarsi all’idea di una possibile dipartita senza rendere la vita l’anticamera della morte potrebbe essere utile. Provare ad essere leggeri nonostante la pesantezza dei tempi e ripeterci di tanto in tanto le parole di Epicuro che arrivano da duemila anni prima di noi: “Non esiste nulla di terribile nella vita per chi davvero sappia che nulla c’è da temere nel non vivere più”. Se non c’è nulla di terribile nella vita, viviamola.

Tag: paura, morte, pandemia

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