Da più di trent’anni a inizio settembre vado a misurare alcuni ghiacciai nel Parco Nazionale del Gran Paradiso. Mi capitava spesso alla fine degli anni ‘80 di partire all’alba dal colle del Nivolet con la prima brina sui pascoli che era ormai un inconfondibile preludio d’autunno. Sul sentiero verso il ghiacciaio Basei, in attesa che il sole portasse un po’ di tepore, pensavo ai fatti di un mondo ancora privo di internet e cellulari nel quale si parlava poco o nulla di cambiamenti climatici causati dall’uomo. Un paio d’ore più tardi, all’arrivo sul caposaldo di misura a quota 2950 metri, mentre un vento freddo tagliava la faccia, trovavo un ghiacciaio sostanzialmente fermo rispetto all’anno prima, semicoperto dai nevai, ed era già tanto quando arretrava di mezzo metro. Poco interessante, per il glaciologo, nella sua stazionarietà. Eseguiti i rilievi, c’era appena il tempo per uno spuntino, con berretto, guanti e piumino, prima di correre a valle.
L’estate 2017 sulle Alpi è stata la seconda più calda dopo quella rovente del 2003. A inizio settembre salgo sul ghiacciaio in maglietta, la brina dell’alba non c’è più, l’erba è ancora verde, non c’è traccia dell’autunno. Arrivato al segnale di misura, più volte cambiato in questi anni per inseguire la ritirata del ghiacciaio, lo spettacolo che mi si para di fronte è stupefacente: quei luoghi solitari e remoti, gli unici dove ancora si può osservare una natura primordiale quasi indisturbata, mutano di anno in anno con una rapidità impressionante.
Intere bancate di ghiaccio sono scomparse nel giro di un’estate, al loro posto rocce lisciate dai ghiacci e cosparse di detriti caotici vedono il sole per la prima volta dopo 5000 anni. Non è un numero a caso, ma il risultato degli innumerevoli studi che hanno ricostruito il clima del passato attraverso pollini fossili e altri resti trovati nelle torbiere e nei sedimenti lacustri. Il sole picchia ma faccio comunque fatica a orientarmi, sono spaesato, acqua che cola da tutte le parti, il ghiaccio che mi va via letteralmente da sotto i piedi, circa cinque centimetri al giorno, e queste rocce così arcaiche sulle quali forse per la prima volta si posa un piede umano. Ho la consapevolezza di essere spettatore di una svolta climatica non solo nella breve storia dell’uomo, ma pure in quella immensamente più lunga della Terra. Il riscaldamento globale che solo trent’anni fa era una teoria per gli addetti ai lavori, oggi è una realtà tangibile, che accelera di anno in anno. Pur aspettandomi questi cambiamenti, non avrei mai pensato che potessero diventare così drastici, così percepibili a pelle. Eppure non bastano ancora, la sottovalutazione di questi sintomi da parte della società è frustrante, mi inquieta, mi spaventa. Nello stesso tempo, questo momento di catastrofica rivelazione della natura, questo ghiaccio che soffre e si dissolve muto davanti ai miei occhi per l’inquinamento prodotto dall’Umanità, ha qualcosa di solenne, di epocale. Mi rendo conto di vivere in tempi interessanti. Che però non è un’espressione ludica, ma un’antica maledizione cinese.