Mondo Coop

“Sulla marca del distributore l’Europa è più avanti noi”

Amici-origine.jpgLa marca del distributore (o, in inglese, private label)  è il prodotto a marchio creato da un’impresa della grande distribuzione come Coop. A che punto siamo con il processo evolutivo i questo genere di prodotto lo abbiamo chiesto a Guido Cristini, professore ordinario di Marketing all’Università di Parma e Coordinatore dell’Osservatorio nazionale sulla marca del distributore.

Allora professore qual è lo stato dell’arte in questo campo?
Quella che tecnicamente noi chiamiamo marca del distributore (o marca commerciale), cioè quei prodotti cui attualmente rimandano al nome e al logo della catena nella quale sono offerti in esclusiva, ha origini lontane, oltre un secolo fa. Ma la fase di cambiamento e di crescita, quella che ci lega direttamente con la fase attuale, avviene, anche in Italia, negli anni ’70. È il periodo in cui le grandi catene della distribuzione si strutturano e da semplici organizzazioni di acquisto, decidono di sviluppare strategie di offerta nelle quali in primo piano assume rilevanza la garanzia dei prodotti posti direttamente in offerta. Disporre di un prodotto col proprio marchio diventa così un elemento chiave per farsi scegliere, per raccontare alle famiglie e ai consumatori quali sono i valori che connotano ogni catena distributiva. Diventa un ulteriore fattore identitario, che qualifica, spiega, differenzia. Ovviamente in un quadro generale di questo tipo, occorre segnalare che ci sono state Insegne che in questa strategia ci hanno creduto molto, ed altre invece che hanno all’inizio perseguito altre scelte. Sicuramente Coop rientra nel primo gruppo ed ha svolto un ruolo di riferimento nel mercato italiano del largo consumo. 

Qual è la fotografia attuale di questo fenomeno in Italia?
In Italia il tasso di penetrazione della marca del distributore appare più limitata rispetto ai paesi commercialmente più evoluti d’Europa (Regno Unito, Olanda, Germania, Francia). Oggi la quota della private label è da noi intorno al 18,3%, contro un 25-26% della media europea, tenuto conto anche dei Paesi di nuova integrazione. Dunque c’è un gap evidente. E in più va evidenziato che il nostro 18,3% comprende realtà come Coop, che col suo 27% evidenzia già oggi essere in linea con l’Europa, e altre catene che sono invece ben lontane dal 18%. Coop ha dunque sostenuto lo sviluppo di questo mercato, investendoci, facendone il perno della propria strategia di relazione con i soci e i clienti, credendo costantemente in una politica di sviluppo e innovazione e, dunque, anticipando le tendenze.

Che differenze ci sono tra l’Italia gli altri paesi europei e gli Usa?
In diversi paesi la marca del distributore viaggia vicino se non oltre il 40% di quote. Pur con volumi simili esistono poi differenze profonde tra paesi come la Germania, dove i discount sono molto diffusi e la Gran Bretagna dove catene come Sainsbury’s o Tesco hanno fatto della marca del distributore un elemento di identità della loro insegna. Negli Usa invece registriamo una situazione a macchia di leopardo, con una media complessiva simile all’Italia. Anche se occorre ricordare che un gigante come Walmart che prima non l’aveva, da 7/8 anni sta investendo decisamente in questa direzione. Quale può essere ancora adesso un riferimento per le nostre catene? Credo che la Gran Bretagna possa ancor oggi essere considerata come l’esperienza più avanzata, quella che può essere un riferimento anche per noi, perché in quel Paese l’offerta delle catene è davvero entrata profondamente nel vissuto del consumatore.

Stiamo parlando di un fenomeno che ha determinato una competizione tra catene distributive e le grandi marche industriali: si tratta di un fattore positivo per il mercato?
Sì, questo fenomeno ha rappresentato sicuramente un fattore positivo per il mercato perché ha offerto al consumatore più alternative di qualità e ha costretto le industrie a realizzare più innovazione e differenziazione. Certo per alcuni settori la crescita della marca del distributore ha sicuramente creato qualche problema in più, penso alle Piccole e medie imprese dell’agroalimentare. In questo caso però la marca del distributore rappresenta uno sbocco importante per imprese che non potrebbero accedere al mercato perché senza una “marca” e con scarse competenze di marketing e di packaging. In questo ambito della filiera occorrerà sempre di più ragionare per costruire soluzioni adeguate di natura organizzativa e logistica in primo luogo. Non credo si possa  accusare la grande distribuzione di alcunché, dato che il suo compito è di selezionare i fornitori per conferire qualità, convenienza e sicurezza al consumatore. Sta solo facendo il proprio mestiere, secondo una tendenza che come abbiamo visto è presente in tutto il mondo.   

L’evoluzione della marca privata quale sarà?
Negli ultimi due anni, se si guarda all’insieme del mercato italiano, la marca privata ha vissuto una fase di stasi restando bloccata poco sopra il 18%. Per il futuro molto dipenderà dalle scelte strategiche che faranno le insegne leader tra cui Coop. Se si avrà la forza e la capacità di innovare, allora il percorso di crescita potrà riprendere in modo significativo. In questi anni, infatti nonostante la quota nel complesso sia risultata invariata, si sono registrati cambiamenti importanti con segmenti di marca commerciale che hanno registrato una forte crescita, specialmente in quella fascia  che tecnicamente chiamiamo premium. Parliamo di mondi specifici, di particolari tipologie di prodotti, quelli legati al benessere, alla salute, a tradizioni e territori che raccontano il meglio della nostra cultura alimentare. Questo richiede al distributore di migliorare ancora di più questa attività di “scouting”, selezionando i migliori fornitori nei diversi ambiti merceologici perché solo così un consumatore adulto, informato e esigente sceglierà i prodotti a marchio. Se comunichi che il tuo prodotto è “il più buono” lo deve essere davvero. Dunque l’asticella della sfida si alza costantemente. Occorre innovare, ma ancor di più occorrono qualità e competenza. La sfida dei prossimi anni non sarà solo di offrire convenienza, ma di associare la qualità, la varietà, la sostenibilità che sempre di più rappresentano il driver di scelta del consumatore finale.

 

 

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