Mondo Coop

Noi, da un anno in prima linea

Quando è scoppiato il contagio i media parlavano di noi come di eroi o angeli della pandemia. Poi sono partite le vaccinazioni di medici, infermieri, insegnanti e altre categorie considerate più a rischio. E di chi lavora nella distribuzione alimentare, sempre a contatto con la gente, si sono tutti dimenticati».

Valentina fa la sua, comprensibile, rimostranza riuscendo a sorridere dietro la mascherina dalla “prima linea casse”. Difficile continuare a chiamarla “barriera”, da quando il virus ha imposto ben altro tipo di limitazioni. È difficile anche sorridere di fronte agli stessi argomenti: il Covid, le mascherine, la solitudine, il lavoro, i figli a casa, qualcuno che non c’è più.

Valentina Lomoro lavora dall’ipercoop di Bari Japigia, a Spesa e via, dunque è a stretto contatto con i clienti, nell’area self check-out, ai quali spiega il funzionamento della spesa automatica. Per sentirsi più sicura talvolta indossa mascherine Ffp2 e chirurgiche insieme. Il Covid lo ha vissuto in famiglia, spiega, «ma preso per altre vie».

Come lei – cinquant’anni, uno spirito da combattente, due figlie che studiano e un marito – sono migliaia gli addetti dei negozi, le cassiere e i cassieri della Coop che in Italia non hanno mai “staccato” da oltre un anno. Niente chiusure o cassa integrazione, qualche volta il congedo per la Dad o un periodo a casa, com’è successo a Valentina, per stare assieme alla figlia in quarantena, perché con gli altri colleghi del punto vendita (avamposto, negli oltre 1.100 negozi Coop, di 55 mila dipendenti per il 70% donne) svolgono un servizio essenziale per la comunità: sono l’anello finale della filiera alimentare. Ma non solo.

Ai compiti ordinari ne hanno sommati altri. Si sono, come dice Adriana Bertozzi, dell’ipercoop di Reggio Emilia, «rimesse in gioco» a partire dal lockdown 2020, trovando soluzioni a problemi nuovi, ascoltando più di prima chi aveva bisogno di parlare, confrontandosi con la paura che si è tradotta col passare dei mesi in nervosismo e insofferenza.

Ci sono stati anche episodi estremi, qualche no-mask o negazionista del virus che è arrivato a starnutire senza proteggersi o a prendere a male parole chi lo invitava al rispetto delle regole. Ma a parte casi gravi, come quello raccontato da Valentina, o di persone accompagnate fuori perché non volevano indossare la mascherina, è bastato ricordare i comportamenti da tenere in negozio per arginare i pericoli e non farli correre agli altri.

Gratificazioni della prima ondata È passato più di un anno così in trincea, e di cose ne sono successe. Cassieri e commessi accettano volentieri di parlarne. In Italia, tra piccola e grande distribuzione, privata e cooperativa, sono un milione e mezzo i lavoratori secondo i calcoli dei sindacati di categoria. Di questi, solo quelli Coop ogni settimana incrociano non meno di 10 milioni, tra soci e clienti, con un rapporto che non ha eguali in altre categorie professionali.

«Siamo la prima linea sì, ma solo per chi ha la fortuna di non essersi ammalato», precisa con modestia Valeria Soluri, di Coop Lombardia, responsabile del servizio soci e clienti. «Medici e personale sanitario lo sono invece per chi si è contagiato davvero. Sono loro i veri eroi, ma entrambi indispensabili». Valeria però n0n nasconde, nel corso della video-intervista, che il coraggio va di pari passo con la paura, la rabbia e la stanchezza «dopo un anno con questo maledetto virus, e senza i vaccini».

Anche il lavoro quotidiano è cambiato, a quanto traspare dai racconti di chi passa nei punti vendita gran parte della propria vita. C’è stata una parabola ben precisa. Per il servizio svolto fin dalla prima ora, gli addetti hanno incassato nei primi mesi moltissimi grazie, e perfino sacchi di pasta Fior fiore regalati, com’è successo, a tutti i dipendenti Coop da una socia emiliana in segno di gratitudine. Gesti ancora più semplici ma indimenticabili, come quello della vecchiettina che a Milano si è rifatta due volte la coda (quella lunghissima del periodo dell’accaparramento) per donare alla cassiera la sua mascherina fatta a mano. Applausi, canti e flashmob, fino a riconoscimenti balzati all’onore della cronaca. Uno per tutti: il cavalierato della Repubblica attribuito dal capo dello Stato a Rosa Maria Lucchetti, cassiera all’ipercoop Mirafiore di Pesaro, per la sua lettera agli operatori sanitari impegnati in prima linea, ai quali ha donato tre carte regalo prepagate da 250 euro.

Ma erano i primi tempi della pandemia, quelli in un certo senso “eroici“. Nell’area vendita, al punto Soci o al punto d’ascolto, la musica, da una Pasqua all’altra, è in gran parte cambiata. Valeria, che presta servizio all’ipermercato Bonola di Milano (il primo storico negozio Coop d’Italia, aperto nel 1988), testimonia di un clima differente. «Siamo tutti più suscettibili di un anno fa. C’è chi si arrabbia per un nonnulla quando gli fai notare che deve alzare la mascherina sul naso, poi magari chiede scusa. E c’è più paura. Si è capito che il virus non è una passeggiata».

In quest’ultima ondata ci sono ancora tante persone corrette, ma gli applausi hanno ceduto il passo ai mugugni. I lavoratori Coop, dal Piemonte alla Puglia, dicono che è più difficile gestire i clienti. Raccontano di dover fronteggiare i malumori di chi nel negozio trova uno dei rari spazi con un residuo barlume di socialità e se ne approfitta per sfogarsi. Capita sia nei supermercati di paese, in cui si infittiscono le maglie della sicurezza e qualcuno sbrocca, sia negli ipermercati delle grandi città, dove si formano code a serpentina, per rispettare il famoso metro di distanza, e non tutti hanno la pazienza e la necessaria correttezza. A Pasqua si sono viste famiglie intere venire a far shopping in barba ai divieti. E il mestiere, alle casse e tra gli scaffali, si è fatto ancora più di frontiera .

Priorità vaccinale In questo anno terribile, cassiere, banconisti e altre figure del punto vendita hanno svolto un ruolo importante anche di presidio sanitario e di collante sociale, ma ora, dicono, il governo si è dimenticato di loro. Non però i connazionali.

Se da un lato, infatti, questa categoria “vulnerabile” non ha potuto godere della corsia preferenziale per i vaccini, dall’altro i sondaggi parlano chiaramente. Tra i lavoratori, gli italiani darebbero la precedenza per l’immunizzazione subito dopo categorie super fragili e over 70, proprio a cassiere e personale di vendita dei supermarket, assieme a badanti e operatori della sanità privata. A dirlo è l’ultima indagine targata Italiani.coop – Nomisma sulle categorie esposte ma lasciate indietro.

Non si è arresa, ed eravamo a marzo, la barese Valentina che sentendosi stressata, come dice lei, «per la mancanza di rispetto di certa gente che pensa più ai bollini che a noi», ha lanciato una petizione su change.org chiedendo al commissario straordinario per l’emergenza Francesco Paolo Figliuolo la priorità vaccinale per i dipendenti di tutte le catene della distribuzione alimentare. «Avete dato la priorità a categoria in Dad e in smart working, noi invece siamo sempre lì tra la gente a dare il nostro servizio con un sorriso e una parola di conforto affinché la speranza nel ricominciare non venga mai persa». La petizione ha superato le 7.000 firme in un paio di settimane, prima che il ministro del Lavoro Orlando annunciasse l’accordo tra governo, imprese e sindacati: le aziende ora possono vaccinare i propri dipendenti nei luoghi di lavoro (si comincia da maggio con le prime 500 tra 7.500 imprese che finora hanno risposto all’appello), pagando di tasca propria i costi di gestione e per il personale sanitario, mentre alle dosi penserà lo Stato.

Si era mossa anche Coop Italia fin da marzo con il suo presidente Marco Pedroni, che aveva chiesto via lettera al ministro della Salute Speranza (vedi box) l’immediata vaccinazione del personale. Il 18 marzo, poi, la richiesta a favore dei lavoratori del commercio era diventata europea grazie alla lettera di Euro Coop e Retail Europe alla presidente della Commissione Ue Ursula Von Der Leyen. In Germania, intanto, le cassiere dei supermercati sono state vaccinate per prime, insieme agli over 80.

In attesa degli sviluppi (mentre scriviamo ancora in evoluzione), gli addetti si sono sentiti tutelati da Coop in quest’anno di pandemia. Valeria e le altre descrivono la sanificazione degli ambienti e tutte le misure di protezione individuale. «Sentivo che in altre aziende non era così, noi da subito. Ancora oggi seguiamo un preciso protocollo per noi e i clienti, che va dalla fornitura di mascherine, gel e guanti, al disinfettante per pulire le casse, ai cartelli e alle strisce colorate per le distanze».

Tra Resistenza e solidarietà Quello che è cresciuto un po’ ovunque, oltre al livello di guardia, è lo spirito di solidarietà. «Tra i colleghi Coop la squadra c’è sempre stata, ma si è fortificata di più durante l’emergenza. Se qualcuno si è ammalato, gli altri si sono accollati il doppio turno, come del resto avviene sempre, ma con più unità e partecipazione, con più spirito cooperativo». Un’altra parola d’ordine è tornata ad essere “resistenza,” accostata a “resilienza”. Resistenza con la erre ben scandita, per dare ancora più valore al pensiero che «prima o poi arriveranno tempi migliori».

Questo, com’è noto, non vale per tutti. Per molti anziani, ad esempio, dei quartieri più popolari come Bonola a Milano, le cose hanno preso una piega ben diversa. «Durante il primo lockdown ci sono voluti due o tre mesi prima che altri soci potessero dirci che clienti abitudinari, che conoscevamo da una vita, erano morti». Poi c’è la solitudine di chi è rimasto. «Siccome avevano la priorità, da noi gli anziani venivano più volte al giorno per non rimanere soli a casa, comprando poche cose per poi ritornare. Eravamo la loro famiglia e questo ci ha fatto piacere. Lo dico con commozione».

La vita è cambiata profondamente anche come conseguenza delle complicazioni a casa, dei figli davanti a un computer a studiare e di mariti senza un lavoro: intere famiglie da riorganizzare. Idem per i negozi che si sono trovati a coprire le assenze improvvise causa Covid. «Ci siamo dovuti misurare con molte quarantene familiari», racconta Lorella Tarca, caponegozio a La Spezia, supermercato di via Saffi. «Ovviamente ci telefonano da un giorno all’altro appena li informano che hanno fermato la classe del figlio per un caso di positività. Non è facile coprire tutti i turni, nonostante la disponibilità del personale». Lorella ha questi grattacapi quotidiani, compresi i contagi tra il personale, più i clienti che anche qui non sopportano più le code. «Il mio negozio può contenere un massimo di 215 persone. Quando vedo un po’ di assembramento alla pescheria o alla gastronomia, vado a contingentare gli ingressi, ma a volte la stessa gente che un anno fa si metteva disciplinata in coda, oggi sbotta gridando ‘fateci entrare’».

Un riferimento per la comunità I supermercati, rimasti sempre aperti, si sono confermati un punto di riferimento fondamentale per la comunità. Lo sa bene Diana Vernocchi, caponegozio a Medicina, il primo comune del Bolognese a diventare zona rossa per l’elevato numero dei contagi. Era il marzo 2020 e tantissima gente, spaventata, chiedeva di poter ricevere la spesa a domicilio.

«Coop Reno non ha una rete di furgoni per offrire un servizio di spesa online, i cui tempi di consegna allora partivano comunque dalle due settimane. Così ci siamo organizzati grazie ai rapporti con il territorio: il sindaco ci ha fornito gli assistenti sociali per comporre le liste della spesa, i volontari le facevano in negozio, con “scontrini sospesi” che sarebbero poi stati pagati finita la quarantena, e le associazioni le portavano a casa. Così abbiamo messo in piedi in poco tempo una rete di assistenza per i più fragili che ha funzionato».

Per Diana la prima settimana fu allucinante anche sul piano personale. Lei era in isolamento fiduciario per via del papà ricoverato per il virus e aveva da gestire il negozio a distanza. «Un’intera settimana tra telefono e video-conferenze: una parte dei personale viene infatti dalla frazione di Ganzanigo e non poteva entrare nel centro di Medicina dove si trova il supermercato».

Di grande riferimento per la comunità sono state anche le parafarmacie. Camilla Calò, 44 anni, è la responsabile del corner Coop Salute di via Livorno, a Torino. «Durante la zona rossa, specie la prima che era più stretta, abbiamo fatto anche un po’ da medici e un po’ da psicologi, per poter rispondere alle tante domande delle persone che non riuscivano a contattare il proprio dottore». E così, senza abusare della professione ma con spirito di servizio, lei e le colleghe, tra nozioni apprese ai corsi di aggiornamento e letture private, si sono misurate con «ansie notturne e diurne in forte crescita, consigliando il miglior prodotto fitoterapico, e con problematiche che spesso sono di natura psicologica». E quali farmaci sono andati a ruba in questo strano periodo? «Al posto dei prodotti per l’epidemia influenzale, che non c’è stata, ci sono stati picchi incredibili per gli integratori per le difese immunitarie. Tante persone – aggiunge Camilla – ci dicono oggi che se ci fosse la possibilità comprerebbero privatamente i vaccini».

Cosa resterà di questi anni Guardando avanti, quando tutta questa storia sarà finita cosa resterà nei punti vendita? Alcune attività di solidarietà che già si facevano ne usciranno probabilmente rafforzate. Ad esempio “Due mani in più”, con i volontari della Caritas che fanno la spesa per i milanesi più bisognosi, un servizio nato dieci anni fa ed esteso con la pandemia. Altre sono sorte per iniziativa di Coop che nel corso del 2020, quando non era possibile organizzare raccolte in presenza, ha messo in piedi “Spesa Sospesa”, un carrello posizionato fuori dal negozio per raccogliere i prodotti della solidarietà. Altra iniziativa rilevante è stata “L’unione fa la spesa“, consegna a domicilio per persone fragili, organizzata in 193 comuni italiani in partnership con le associazioni di volontariato. Ad oggi sono 20 mila le spese consegnate, dal Friuli alla Sicilia, sui territori coperti da Coop Alleanza 3.0. Uscirà inoltre rafforzato, dicono gli intervistati, il servizio di spesa a domicilio, là dove c’è, perché ordinare da casa si è capito che è una comodità in più.

Un’altra eredità sarà la cura particolare per la sanificazione di carrelli, cestini, casse: tutte attività di cui la pandemia ha messo in luce la fondamentale importanza. Interi negozi vengono oggi “vaporizzati” più spesso. E sicuramente rimarranno cose immateriali come una maggiore unità tra le persone. «Credo che chi ha provato la sofferenza abbia imparato a rispettare di più se stesso e gli altri». «Si è aperta la comunicazione tra di noi e questo vorrei rimanesse nel tempo». «Insieme – ripetono – faremo ancora di più la differenza».

È il famoso Dna della cooperazione che si trasmette, a volte, anche geneticamente. Succede a Casalecchio di Reno, in provincia di Bologna, dove un ragazzo di 15 anni è stato nominato Alfiere della Repubblica dal capo dello Stato per la sua attività di volontariato nei mesi del lockdown. Chiamava al telefono gli anziani isolati in casa, faceva recapitare la spesa e favoriva la visita del medico. Un esempio di impegno e solidarietà. Si chiama Matteo Zini ed è il figlio di una dipendente dell’ipercoop Borgo di Bologna. A lui, che ha dato tanto, quello che resterà finito il Covid sarà molto di più.

Tag: coop salute, sicurezza, covid 19, cassiere, supermercati, ipermercati

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