Il paradosso è che il consumatore italiano è cambiato e chiede di poter acquistare “cibo pulito e giusto”, cioè prodotto senza sfruttamento del lavoro nei campi (che il sudore sia quello di connazionali o di immigrati non fa la differenza). Ma nel frattempo tale sfruttamento cresce di livello e assume non solo “facce”, ma “forme” diverse che nemmeno si conoscono bene.
E così nonostante gli effetti positivi della nuova legge contro il caporalato e l’impegno concreto di tanti soggetti (come Coop), il solco dell’illegalità rischia di approfondirsi.
I recenti arresti a Trani di sei persone che nel 2015 misero in piedi un’agenzia interinale per schiavizzare 600 donne, nel barese, di cui una, Paola Clemente, morta di fatica per due euro all’ora, dimostrano che c’è un “nuovo caporalato” da stanare.
E intanto si ripetono periodicamente tragedie come i roghi nelle baraccopoli dove si ammassano i migranti trattati come serbatoio di forza lavoro. Poche settimane fa, nel foggiano, sono bruciati vivi due uomini del Mali: il settimo incendio in quel ghetto, a Rignano Garganico, poi smantellato.
Molto si sa del vecchio e qualcosa (ma non tutto) del “nuovo caporalato”, che si traveste da tour operator pur di eludere la legge 199 dell’ottobre scorso contro la tratta nei campi, nonché delle agromafie che su quei ghetti di disperati creano delle fortune. E almeno c’è una prima risposta normativa al problema. Se però ci spostiamo sullo scenario europeo, non c’è nemmeno quella. Non esiste infatti una definizione unitaria di “lavoro nero nei campi” e di conseguenza manca una legislazione unica e omogenea su cui fare leva.
Si sa, tuttavia, che il 25% dei lavoratori agricoli è illegale o irregolare, con punte che arrivano al 60% in Portogallo, che in Germania il fenomeno è limitato al 5% mentre in Italia, che pure è tra i paesi più impegnati nell’azione di contrasto, siamo al 31,7%. Dunque c’è poco da stare allegri: occorre alzare l’asticella e scendere con più decisione in campo.
Da riflessioni come queste scaturisce l’accordo di collaborazione siglato fra Coop e il Milan Center for Food Law and Policy, una prestigiosa associazione di respiro internazionale presieduta da Livia Pomodoro, ex presidente del Tribunale di Milano, che fa del “diritto al cibo” la propria missione. L’accordo è finalizzato a una ricerca su scala europea sulle Buone pratiche contro lo sfruttamento del lavoro in agricoltura, che è come dire l’altra faccia, quella buona, di un fenomeno preoccupante.
Il punto, come dice Livia Pomodoro, è dimostrare che «si può e si deve fare profitto senza ricorrere all’illegalità» e di riuscire a fare dell’Italia – che è già il paese per eccellenza della buona alimentazione – «anche un punto di riferimento dell’applicazione dei diritti legati al cibo». In altre parole, reinvestire l’eredità di Expo 2015 e metterla a frutto in modo proficuo per l’umanità.
Per coop un respiro europeo Su questo terreno era inevitabile l’abbraccio con Coop, il principale attore, nel nostro paese, della grande distribuzione che è il crocevia del rapporto tra consumatore e produttore. Coop in più significa “cooperazione” ed è da sempre attenta all’etica dei prodotti e alla difesa dei diritti. Risale a una ventina di anni fa (il 1998 è la data simbolo) l’adozione dello standard SA8000 sulla responsabilità sociale nei prodotti a marchio: Coop fu la prima azienda in Europa e l’ottava al mondo a richiedere tali garanzie ai propri fornitori. Ed è fresco di un anno (marzo 2016), il lancio della nuova campagna Buoni e Giusti che ha riproposto l’analogo tema sul versante dei controlli nelle filiere ortofrutticole più a rischio. Una campagna che è ripartita quest’anno con nuove ispezioni e un numero maggiore, da 8 a 13, di filiere ortofrutticole sottoposte al setaccio delle legalità (vedi box).
Maura Latini, direttore generale di Coop Italia, inquadra così l’accordo con il Milan Center for Food and Policy e la conseguente ricerca sulle Buone pratiche, sostenuta grazie al contributo di Coopfond, il fondo mutualistico intercooperativo. «Per noi sono da considerare parte integrante della campagna Buoni e Giusti. Aggiungono competenze specifiche e un profilo internazionale a un impegno etico che non è di oggi, ma che rilanciamo per far fronte a un problema drammatico e in crescita che tocca i diritti primari delle persone». «Vogliamo dare continuità a un impegno storico – rimarca Enrico Migliavacca, vicepresidente di Ancc/Coop – che si è tradotto in tante battaglie di civiltà e giustizia».
La legge anti caporalato Tra le “buone pratiche” normative c’è sicuramente la legge italiana 199/2016 contro il caporalato e il lavoro nero in agricoltura. Dopo otto anni di discussioni ha messo nero su bianco alcuni principi importanti e introdotto novità profonde in un complesso legislativo che la Flai/Cgil, per bocca della sua segretaria generale, Ivana Galli, considera ancora «carente». Bisogna tener presente – osserva – che «il mercato del mondo del lavoro in agricoltura, negli ultimi anni si è trovato davanti alla fine del collocamento pubblico, quindi di un luogo dove far incontrare in maniera legale e trasparente domanda e offerta di lavoro».
Cosa ha portato di nuovo, in questo contesto, la legge anti-caporalato? Ha sostanzialmente riscritto i termini di questo odioso reato scindendolo dalla violenza in senso stretto. Per la prima volta prevede l’indennizzo delle vittime che denunciano gli sfruttatori, come succede per le vittime di mafia; inoltre consente di utilizzare i beni confiscati ai procacciatori illegali di lavoro e di dirottarli in un fondo antitratta; prescrive l’arresto in flagranza di reato e l’innalzamento delle pene. Ma soprattutto stabilisce la responsabilità dei datori di lavoro, cioè non solo di chi “organizza” ma anche di chi “utilizza” il lavoro illegale: un nodo questo molto delicato, tant’è che c’è stata più di una levata di scudi da parte di agricoltori delle aree più critiche, pugliesi e non, che giudicano la legge troppo repressiva.
A difenderla è intervenuto il ministro dell’agricoltura Maurizio Martina, presente a Milano alla presentazione dell’accordo Coop/Milan Center for Food Law and Policy. Martina è tra quanti hanno fortemente voluto questa legge. «E non era scontato – chiosa – che maturasse in tale ambito, perché all’inizio sembrava che il mondo agricolo subisse invece di determinare questo percorso verso un’agricoltura di qualità nella legalità».
Martina, invece, è convinto che la legge segni «un cambio di passo», favorito anche dai piani di accoglienza dei lavoratori stagionali e dai protocolli di legalità sottoscritti nei territori più battuti dalla criminalità. Nel nostro paese ci sono non tre o quattro, ma un’ottantina di “epicentri” dello sfruttamento del lavoro agricolo (vedi pagine precedenti) che disegnano una mappa della “tratta interna” che risparmia ben pochi territori.
«La legge – incoraggia il ministro – sta dando i suoi primi frutti. Nel giro di un anno, tra il 2015 e il 2016, sono cresciuti del 60% i controlli preventivi sui territori e siamo passati dalla stagione calda del 2015, che ha avuto il suo epicentro in Puglia con la morte di Paola Clemente, ai casi per fortuna meno drammatici del 2016. Il lavoro svolto ha prodotto poi un aumento della responsabilità e dell’attenzione dell’opinione pubblica sul tema della legalità, che è un’occasione formidabile da cogliere». Un dato positivo in questo senso è l’aumento del 5% delle ore lavorate in agricoltura denunciate regolarmente all’Inps, e ciò è successo soprattutto nelle aree più difficili e in mano alla criminalità organizzata.
La rete del lavoro agricolo di qualità Ma perché, viene da chiedersi, sull’altro fronte non si riesce a far decollare una vera white list delle filiere di qualità? Sarebbe un modo per escludere le aziende che vivono di lavoro nero e ridurre la concorrenza sleale, oltre che di spezzare la catena dello sfruttamento. Nel 2014 il ministero ha varato a questo scopo la Rete del lavoro agricolo di qualità. «Occorre migliorarla, velocizzarla, renderla più accessibile» ha chiesto Maura Latini a nome di Coop. «Semplificare la burocrazia e rimuovere le difficoltà che rallentano l’adesione da parte delle imprese. Nonostante tutto questo, il 40% dei nostri fornitori ha aderito alla Rete».
Alle prime 7200 aziende agricole invitate da Coop a iscriversi, nel primo anno di Buoni e Giusti se ne sono aggiunte altre 1500 appartenenti alla filiera del pomodoro da industria, la più vulnerabile, di cui il 15% opera proprio nelle regioni più critiche (Campania, Puglia, Sicilia) dove c’è ancora spazio per la raccolta manuale. Lo stesso ministro Martina ha ammesso che la Rete è ancora incompleta, «che va migliorata e soprattutto semplificata. Ma si tratta di una scommessa da vincere, perché l’ambizione della Rete è quella di riconoscere in un sistema tutte le aziende che lavorano con la massima trasparenza e nella legalità».
La sfida resta aperta su tutto il fronte dell’agricoltura di qualità nella legalità. «Senza mai dimenticare – ha sottolineato il ministro – che l’illegalità non è solo un tema del Mezzogiorno, ma nazionale, e che le situazioni critiche nel mondo del lavoro agricolo ci sono e sono ampiamente documentate anche nel centro Nord».