“Se si vuole inquadrare correttamente il tema delle materie prime alimentari in rapporto a ciò che consuma e produce il nostro paese, occorre partire da un dato di fondo e cioè che l’Italia non è un paese storicamente in grado di coprire il proprio fabbisogno alimentare con la propria produzione agricola. È un fatto strutturale che si è acuito, nel corso degli anni ’70 e ’80, con l’aumento della pressione demografica e col benessere legato al boom economico che aveva aumentato i consumi in maniera significativa. Cioè siamo tanti, siamo 60 milioni e mangiamo meglio. Detto questo, dall’inizio degli anni ’90, questo squilibrio, tra capacità produttiva e consumi, si è sostanzialmente stabilizzato e si vede anzi qualche segnale di recupero”. A parlare è il professor Marco Zuppiroli, docente di economia agroalimentare all’Università di Parma che, supporta il suo ragionamento con tabelle e dati che, a sentire certi dibattiti nostrani, non sembrano più di tanto noti all’opinione pubblica.
Spesso in molti interventi, anche animati dalle migliori intenzioni perché (giustamente) a tutela del made in Italy, è implicitamente sottintesa l’idea che comunque i prodotti tricolori siano disponibili e abbondanti su ogni fronte. Ma non è così. Lasciando parlare le cifre l’Italia è autosufficiente solo per alcuni consumi: vino, pasta, formaggi duri, salumi, uova e pollo, frutta fresca, riso e poco altro. Per il resto occorre andare a comprare oltre frontiera una quota più o meno significativa del nostro fabbisogno.
Il mito dell’autosufficienza Ma soprattutto l’approccio con cui guardare all’argomento deve essere più articolato, per evitare schematismi manichei che non aiutano nessuno. “Premettendo che l’idea di un paese del tutto autosufficiente non è un’alternativa concreta ed è antistorica – prosegue Zuppiroli -, va invece sottolineato che avere scambi è fisiologico e positivo, perché nasce una relazione che arricchisce entrambe le parti, favorisce specializzazioni, consente costi minori, allarga l’offerta a disposizione.
Ma c’è un altro concetto di fondo che per capire la situazione italiana è fondamentale. Noi siamo un paese che ha bisogno di importare materie prime, ma che poi le esporta sotto forma di tanti prodotti finiti, grazie alle capacità e alla qualità della sua industria di trasformazione. E ciò che esportiamo, dalla pasta al vino ai formaggi ai salumi, sono proprio i simboli del made in Italy nel mondo. Dunque è evidente che è molto meglio avere un deficit di materie prime, ma riuscire, con le importazioni, a mantenere intatta una capacità industriale forte, che assicura valore aggiunto e redditi. La produzione e l’export agroalimentare italiano richiedono delle competenze che sono un grande patrimonio collettivo e un vantaggio per il paese, soprattutto in un momento storico come l’attuale in cui solo le esportazioni possono contenere gli effetti di una crisi che è nella domanda interna”.
Per far riferimento ai settori dove esportiamo, si va dalla pasta dove produciamo il 220% rispetto a quel che basterebbe per il consumo interno (che è di 1 milione e 482 mila tonnellate annue). Negli spumanti questo rapporto è addirittura del 414% (produciamo 4 volte quello che consumiamo), per i vini di qualità siamo al 153%, per i formaggi duri siamo al 134% per i salumi al 112% per la frutta trasformata siamo al 242%, per quella fresca al 128%, per l’uva da tavola a 149%. Ancora: per il pomodoro trasformato siamo al 227%, per il riso siamo al 328%.
Il caso della pasta “Ma questi dati macro vanno analizzati più in profondità – prosegue il professor Zuppiroli – perché, anche dove siamo forti esportatori, non significa che non siamo a nostra volta importatori della materia prima. Il caso più emblematico è quello della pasta, prodotto italiano per antonomasia in tutto il mondo. Ebbene, grazie alla capacità e alla qualità della nostra industria di trasformazione, vendiamo pasta nei cinque continenti. Eppure la nostra produzione di frumento duro copre il 65% delle esigenze nostrane. Dunque importiamo, lavoriamo e riesportiamo, creando valore e aggiungendo un contenuto qualitativo molto alto alla materia prima originaria. Lo stesso avviene per il riso. Con la materia prima copriamo il fabbisogno, ma poi grazie a ciò che importiamo riusciamo a mandare all’estero 3 volte il nostro consumo.
Sul riso ad esempio, succede anche che i nostri consumatori si sono abituati a cucinare, assieme alle tipologie di riso nostrane, anche altri tipi provenienti dall’Asia. Dunque le cose si mescolano perché cambiano i comportamenti e le abitudini alimentari delle famiglie.
Ribaltando il punto di osservazione, per il latte alimentare copriamo solo il 44% delle necessità e dunque senza importarlo non ce la faremmo. Per lo zucchero siamo appena al 24%, per il pesce congelato siamo al 41%, per quello lavorato siamo appena al 16%”.
È evidente come la richiesta di molti consumatori che cercano “semplicemente” un prodotto che sia italiano, abbia bisogno di una visione più ampia e che tenga conto di un mercato complesso e articolato, in cui non è semplice tirare una riga che separa nettamente il bianco dal nero e ciò che è italiano da ciò che non lo è.
Da dove importiamo “Nelle analisi che abbiamo sviluppato, – prosegue Zuppiroli – abbiamo cercato di vedere, per le diverse tipologie di prodotti che importiamo, quali sono i paesi di provenienza. Abbiamo citato il latte ad esempio e qui il 100% di ciò che importiamo viene da paesi UE. Mentre per il pesce la gran parte dell’import viene da paesi che non appartengono alla UE e nemmeno aderiscono all’OCSE.
È chiaro che sul piano delle normative, degli standard, dei controlli, questo tema delle provenienze va tenuto in conto per garantire al consumatore finale la qualità e la sicurezza migliori. Ma allora il punto su cui occorre lavorare è forse proprio quello di alzare, in tutto il mondo, quale che sia la provenienza di un prodotto, standard, normative e controlli sulla qualità. Del resto, molti episodi di cronaca ci hanno mostrato come non è che il fatto di produrre in Italia sia di per sé garanzia di sicurezza e qualità. Anche da noi scandali e tentativi di frode si ripetono in maniera sistematica. Dunque offrire ai consumatori le garanzie di qualità e sicurezza deve valere a 360 gradi, dentro e fuori dai nostri confini”.
Politiche per l’agricoltura Al di là delle fondamentali capacità dell’industria di trasformazione alimentare, sul futuro dell’agricoltura nel nostro paese, Zuppiroli rimanda poi alla necessità di scelte politiche organiche ed equilibrate. “Il calo della superficie coltivabile in Italia è stato drastico negli ultimi decenni: da 18 a 13 milioni di ettari. Un calo che dipende da fattori diversi, tra cui anche le politiche definite a livello di Unione Europea. Ma tra le cause vi è anche il processo di urbanizzazione e industrializzazione nelle zone di pianura che ha visto l’agricoltura soccombere in termini di redditività rispetto alle destinazioni non-agricole dei terreni. Dunque c’è stata una pianificazione territoriale squilibrata”.
Ma in tempi in cui tanto si parla di vendita diretta da parte dei contadini, di gruppi d’acquisto e di prodotti a chilometro zero, che cosa ne può derivare per l’agricoltura italiana? “Tutti questi fenomeni sono opportunità interessanti e positive per entrambe le parti, per i consumatori e i produttori – conclude Zuppiroli –. Sono segno di una attenzione verso la qualità e i territori che comunque vale soprattutto per i prodotti freschi e non per i trasformati. Anche qui bisogna fare in modo che le garanzie di qualità e sicurezza siano definite e chiare. Ma dalle cose che abbiamo provato a spiegare in questa chiacchierata credo emerga chiaramente come la dimensione dei problemi sia più ampia e servano strategie che sappiano valorizzare i punti di forza e le capacità del nostro mondo agroalimentare che sono notevoli e possono aiutare il sistema paese in una fase difficile come quella in corso”.