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Intervista a Oscar Farinetti, fondatore di Eataly

G2_313_COM_oscar-farinetti.jpgOscar Farinetti ha indovinato il successo d’una formula commerciale ormai planetaria. Si chiama Eataly è  buona per tutte le tasche, a nord e a sud, in Italia e all’estero. Da Eataly mangi l’Italia, e non è un gioco di parole. “L’attenzione per i  cibi italiani è decuplicata – così Farinetti spiega il suo successo – perché i nostri prodotti sono freschi, semplici: più mercato e meno cucina”. Li compri e si cucinano da soli, insomma, e sono a prova di cuochi pasticcioni. Così, per la società Eataly – controllata per il 60% dallo stesso  Farinetti e per il restante 40% da alcune cooperative del sistema Coop (Coop Liguria, Novacoop e Coop Adriatica) –  è in programma un’altra trionfale batteria di aperture nazionali ed extranazionali: Bari, Firenze, Piacenza e poi Istanbul, Dubai e Chicago. Un successo che nel 2011 ha raggiunto i 212 milioni di euro di fatturato, passando da Torino, New York, Roma, Tokyo e Bologna (dove, all’Ambasciatori, c’è l’apprezzato connubio tra Eataly e Librerie.Coop). 

Oscar Farinetti, cosa pensa di questa grande attenzione al cibo da parte di tutti i media, dalla tv al cinema, dal web all’editoria?
Dovremmo essere felici per l’interessamento che c’è in questo periodo per il cibo. Salvo il fatto che in alcuni casi si parla di cibo in modo autorevole in altri casi no. Talvolta è solo intrattenimento e ha poco a che fare con l’argomento importante di cui si parla, cioè il cibo. Altre volte no, c’è ricerca del produttori, gusto della scoperta e della narrazione. Sono poco attratto anche dalle ricette in tivù che aggiungono materie prime senza dire quali sono. Dicono, ad esempio: adesso mettiamo un po’ di olio extravergine. Sì, ma quale? 

La gran parte delle persone secondo lei, è interessata alla qualità del cibo, anche a partire da quello che si vede in tivù?
In generale, temo, non c’è una gran ricerca della qualità e del resto – come sappiamo, 27 milioni di italiani formano le loro opinioni a partire dalla tivù che, come abbiamo detto, non sempre è autorevole.

Come interpreta il fenomeno per cui tante persone hanno ricominciato a cucinarsi da sole pane, dolci, e cibi fatti in casa?
Intanto bisogna considerare che c’è una crisi bestiale e la gente compra le farine, le uova, gli ingredienti primordiali – diciamo – perché a fare il pane a casa si risparmia e perché il lavoro di una casalinga o casalingo è a costo zero. Poi, forse, anche perché abbiamo ricominciato a interessarci a ciò che mettiamo dentro al nostro corpo e non a ciò che sta fuori. Per questo, tornando a quanto detto prima, bisogna riuscire a raccontare la cultura del cibo, la sua emozione, ciò che significa per il nostro corpo e la nostra identità. E qualcuno riesce a farlo. Anche in tivù.

E Eataly? Che ruolo ha in questo contesto?
Eataly ha contato molto per riportare al centro della vita delle persone la passione per il cibo. Ricordando però che il cibo bisogna conoscerlo. Raccontando le storie dei prodotti. La loro origine. I meccanismi di produzione. Facendo conoscere le differenze tra questo e quel formaggio, questo e quell’olio. Perché più conosci e più godi. 

Ma questa situazione di crisi non spinge la maggior parte della gente verso prodotti di bassa qualità purché a buon mercato? 
Bisogna riflettere sul fatto che spendiamo per il cibo il 20% di quello che mangiamo. È sul resto, su quel restante 80% che dobbiamo cercare di risparmiare. Perché quello che mangiamo è il valore su cui investire. E così dovrebbe fare anche l’Italia. Siamo già nelle condizioni di poter raddoppiare le esportazioni agroalimentari e anche le presenze turistiche. Basterebbe questo a risollevarci dalla crisi.

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