Una miniera di preziose informazioni. Com’è già avvenuto con le stringhe di testo, così sta succedendo con i selfie e altre immagini postate ogni giorno sui vari social network, a ritmi a dir poco maniacali: da 300 che erano nel 2011, a 1,8 miliardi ogni 24 ore a maggio di quest’anno (fonte: Mary Meeker, partner di Kleiner Perkins Caufield & Byers).
Un segno dei tempi, non c’è dubbio, ma anche un tesoro inestimabile per gli uffici marketing di tutto il globo, se solo ci fosse una tecnologia che consentisse agli analisti del settore di trarre dalle immagini preziose informazioni sul rapporto tra il proprio brand e i consumatori nelle loro esperienze di vita.
Fino a oggi così non è stato. O almeno non del tutto. Ma il vuoto sta per essere progressivamente colmato. Non ci saranno più immagini statiche, dunque, ma actionable for marketers: ovvero, sfruttabili dal marketing. Si tratta solo di applicare la scienza degli algoritmi di riconoscimento a ogni scatto o autoscatto. I maggiori passi avanti in questo senso sono stati compiuti dalle più prestigiose università del mondo.
A dicembre 2013 il Carnegie Mellon ha annunciato di aver analizzato cinque milioni di immagini prese da siti come Pinterest e Flickr e contenenti un tag per 48 brand diversi in quattro categorie (sport, lusso, birra e fast food), riuscendo a sviluppare un algoritmo per raggrupparle automaticamente per ciascuna marca.
Solo un primo passo, si legge, ma importante, dato che già consente di associare beni di consumo alle situazioni in cui sono effettivamente consumati, esibiti, goduti. Per il futuro prossimo, l’obiettivo è che sia possibile “generare parole chiave per le immagini postate dagli utenti, e usarle per sottoporre la pubblicità adeguata a ciascun individuo”, proprio come oggi avviene per i contenuti testuali.
Ma è un gruppo di computer scientist formatisi al MIT di Boston a essere andato ancora oltre fondando, nel 2012, Ditto Labs. Ovvero, un servizio che – grazie allo sviluppo di un omonimo “motore proprietario di riconoscimento dei loghi” – consente di trovare le foto con il proprio brand pubblicate su social media come Instagram, Tumblr e Twitter, scoprire a quali trend sia associato, identificare affinità con altri brand (per campagne di co-marketing), “misurare sentiment e sorrisi”, monitorare le reazioni al lancio di un prodotto, assicurarsi che il brand mantenga la sua immagine nei canali social sfruttando i visual insights del proprio brand e di quelli rivali per campagne pubblicitarie mirate, e infine incrementare la propria base di influencer.
In pratica, come si legge su Crunchbase, “Ditto identifica automaticamente chi tifa per i Red Sox, chi mangia a Burger King, chi guida una Jeep, chi veste Prada“. Una sorta di “foto-etnografia” che fornisce un serio spunto di riflessione per quanti sostengono che il più grosso problema dei big data sia il loro potenziale discriminatorio.
Ditto sostiene che gli strumenti di analisi attualmente disponibili agli uffici marketing “si perdano l’85% delle foto condivise sui social media dagli utenti e contenenti il proprio brand”. E dalla teoria sta passando alla pratica. Il New York Times ha segnalato ad aprile scorso che Kraft ha fatto ricorso proprio a Ditto Labs per uno dei suoi brand più importanti, Macaroni and Cheese, così da “meglio comprendere quando e dove i suoi fan consumino il prodotto e cosa ci consumano insieme“.
Poi, nei giorni scorsi,è stata la volta dello stesso Tumblr – che si aggiunge, oltre a Kraft, a Cadillac e Coca-Cola. Significa che basterà postare una foto con una lattina di Coca in mano per vedere apparire, magicamente, pubblicità di bibite gassate? Non ancora, dice il capo dello sviluppo commerciale del social network, T. R. Newcomb a Mashable, che segnala anche come Google, Facebook e Pinterest stiano investendo nella stessa direzione: “Per ora non stiamo pianificando nulla che abbia a che vedere con la pubblicità“, concentrandosi piuttosto su che tipo di conversazioni si generi nella rete sociale sul proprio prodotto. Per ora.
E del resto, qualcosa di simile fa anche Curalate, tra i cui client figurano Sony e Gap, e il cui chief executive Apu Gudpa dice a Entrepreneur che le immagini consentono di sviluppare una “relazione emotiva” con il consumatore, e “se hai una relazione emotiva con il consumatore non hai trovato un consumatore, ma un amico, e ciò significa che sarà più disponibile a tollerare i tuoi sbagli, ti sarà fedele più a lungo e che sarà più disposto a pagare per ciò che fai“.
Niente di straordinario nell’era della sorveglianza e del tracciamento pervasivo e di massa, se non l’ennesima conferma che il movente di governi e multinazionali è attualmente lo stesso: il terrore di lasciarsi sfuggire anche il più minimo dettaglio di ciò che i cittadini-consumatori si dicono in rete.
Come ribadisce al Times l’analista di Forrester Research, James McQuivey, sottolineando come la tecnologia di base sia la stessa sviluppata dalle forze dell’ordine per reperire immagini “oscene“: il timore dei brand è che “qualcosa di grosso stia accadendo e non capiscano di che si tratta“. Ed è lo stesso profilo su FastCompany del CEO dell’azienda, David Rose, a sottolineare come la tecnologia di Ditto sia “versatile e costruita per adattarsi ai sempre cangianti usi della tecnologia fotografica, per esempio per telecamere indossabili e sorveglianza domestica“. Con 2.500 dettagli per ogni immagine, l’unico limite è la fantasia. E poco importa se non è assolutamente pacifico che chiunque posta una foto online sia d’accordo che venga scrutata a fini commerciali con questo livello di dettaglio.
Ma l’ambizione di Rose va molto oltre: la sua tecnologia, dice, potrebbe aiutarci a “trovare pattern nelle abitudini dei fumatori, nel consumo di cibi non sani” e così via (domanda: davvero se ne possono immaginare soltanto usi positivi?). Insomma, si tratta di “migliorare le nostre vite“, oltre che vendere prodotti. Un binomio noto dagli albori del marketing che tuttavia non per questo appare meno problematico, specie ora che basta un apparentemente innocuo autoscatto a riproporre il problema.
(20 agosto 2014. Fonte: Wired)