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Materie prime, origine in etichetta

Prima è toccato al latte e ai suoi derivati (formaggi, yogurt, burro, ecc.). Poi riso (dal giorno 16) e pasta (dal 17). Ad aprile toccherà a conserve e sughi di pomodoro. Parliamo dell’entrata in vigore dei decreti legislativi (firmati dai ministri allo Sviluppo economico, Carlo Calenda, e alle Politiche agricole, Maurizio Martina) con i quali in Italia diventa obbligatoria l’indicazione sull’etichetta sia del paese di provenienza della materia prima, sia di quello dove avviene la lavorazione.

Si tratta di provvedimenti che hanno fatto discutere, anche perché da un lato si tratta di una sperimentazione che durerà due anni e, dall’altro, si introducono cambiamenti su materie di cui anche l’Europa dovrà occuparsi e lo farà con diritto di precedenza (in applicazione del regolamento comunitario 1169 del 2014). Dunque il rischio di conflitti o di dover cambiare di nuovo c’è tutto, ma nonostante ciò il governo italiano ha deciso di non aspettare e di andare avanti, rendendo operative norme che sicuramente hanno un grande pregio che è quello di dare maggiori informazioni e garantire un più alto livello di trasparenza.

Come ha spiegato il ministro Martina «il tema della trasparenza delle informazioni al consumatore è un punto cruciale per il modello di sistema produttivo che vogliamo sostenere. Per questo l’Italia ha deciso di non attendere e di fare in modo che i cittadini possano conoscere con chiarezza l’origine delle materie prime e degli alimenti che consumano».

Sin qui tutti d’accordo. Il passo avanti è innegabile. Anzi c’è chi come Coop già dal 2013, proprio sull’indicazione di provenienza delle materie prime aveva compiuto una scelta di grande rilievo, mettendo a disposizione di tutti un apposito sito on line (www.cooporigini.it) e una app che consentono di scoprire la provenienza dei principali ingredienti dei prodotti a marchio Coop (le stesse informazioni sono disponibili anche sul catalogo on line: www.catalogoprodotti.coop.it/pam/i). La strada della trasparenza (che non può essere solo limitata a ciò che può contenere un’etichetta) è un valore fondamentale se si vuole davvero far crescere la consapevolezza dei consumatori. A maggior ragione se, come nella serie di decreti varati dal governo, riguarda filiere come quelle di latte, pomodoro e pasta, che sono il cuore della tradizione agroalimentare italiana e del suo successo nel mondo.

Infatti, strettamente legato al far conoscere da dove vengono le materie prime e dove avvengono le lavorazioni, c’è il tema dell’italianità. Anche qui, è evidente che tutti sono favorevoli a tutelare le produzioni italiane, vista la loro qualità mediamente davvero alta. Ma tra le posizioni sostenute, ad esempio, da Coldiretti (favorevole ai decreti) e quella dell’Associazione industriali della pasta (invece critica), qualche differenza c’è, come testimoniano le polemiche che ci sono state.

E che ruotano intorno a due temi strettamente legati. Perché tutelare le produzioni italiane è sicuramente giusto (del resto Coop come tante altre imprese indica sempre quando il prodotto è al 100% italiano), ma ciò non significa che materie prime provenienti dall’estero siano automaticamente di scarsa qualità. Anzi, spiegano ad esempio i pastai, non sempre nel corso degli ultimi  anni il grano italiano ha superato la soglia di contenuto proteico necessario a garantire standard qualitativi e tenuta nella cottura. Da qui la necessità di miscelarlo, ove necessario, a grano di altri paesi. Che ovviamente deve essere di alta qualità proprio a tutela del livello del prestigio della pasta che esce da stabilimenti e aziende italiane.

Tutto quindi rimanda alla serietà dei controlli (ad esempio sulla presenza di residui di una sostanza di cui tanto si parla come il glifosato), delle analisi, delle lavorazioni di chi opera sul mercato e alla trasparenza con cui i consumatori possono accedere alle informazioni.

Ma il secondo corno legato al tema della tutela dell’italianità, è che questo problema non va trattato in termini ideologici bensì partendo da una conoscenza effettiva dei dati e delle capacità produttive dell’agricoltura italiana. Molti continuano a ignorare infatti due elementi di fondo. Il primo è che l’Italia è autosufficiente (cioè produce una quantità necessaria a coprire il suo intero fabbisogno) solo per poche filiere che sono quelle del riso, del vino, della frutta fresca, del pomodoro e delle uova. Ciò significa che, ad esempio per il latte e i suoi derivati (pensiamo ai tanti celebri formaggi italiani) o per lo stesso grano (e quindi per la pasta), nel nostro paese non si produce a sufficienza. Lo stesso vale per l’olio, le carni bovine, lo zucchero, il pesce, l’orzo, le patate, il mais…

Dunque, pur con tutto l’amore e l’affetto per i prodotti made in Italy, per tutte queste cose abbiamo bisogno di importare per soddisfare il consumo interno.

C’è poi un’ulteriore considerazione che tutti devono aver presente. E cioè che uno dei grandi punti di forza del nostro sistema agroalimentare, non sta solo nella qualità dei prodotti che vengono da campi e allevamenti, ma anche nella capacità e nella qualità delle industrie che lavorano e trasformano questi stessi prodotti. E queste industrie sono proprio quelle che consentono di esportare in tutto il mondo pasta, vino, formaggi e altro. Secondo dati del 2013 (ma tendenzialmente ancora più che rappresentativi della realtà), elaborati dal professor Marco Zuppiroli dell’Università di Parma, l’Italia ha per i formaggi una capacità produttiva che è del 134% rispetto al consumo interno. Il che significa che quel 34% in più di formaggi viene esportato. Per gli spumanti questo rapporto è al 414%, per i vini Dop al 153%, per la pasta al 220%, per il riso al 328%, per il pomodoro trasformato al 227%.

Dunque, con grande beneficio di tutto il paese, esportiamo un sacco di alimenti in tutto il mondo. E anzi il ministro Martina ha più volte rilanciato come obiettivo possibile il traguardo dei 50 miliardi di export agroalimentare. Siamo sulla strada giusta dato che nel 2017 si dovrebbero superare i 40 miliardi, con una crescita del 6% sull’anno precedente.

Dunque l’auspicio è che, assieme alla trasparenza delle etichette, ci sia uno sforzo comune per tutelare l’insieme di un sistema produttivo così articolato, certo aumentando la capacità produttiva della nostra agricoltura, ma anche garantendo standard qualitativi sempre più alti e controlli rigorosi. 

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