Siamo il paese che ha una delle percentuali più basse di laureati rispetto alla media de paesi Ue ed Ocse. Tutti, da anni, dicono che la possibilità di crescere e di reggere nella competizione globale è strettamente legata al livello dell’istruzione, alla capacità di produrre innovazione e ricerca.
Nonostante questa premessa nota e a parole condivisa, il numero di immatricolati e iscritti alle università italiane continua a calare in modo drammatico. Il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, ieri ha parlato di fenomeni “impressionanti” e “patologici” che sono “uno spreco e un lusso che questo Paese non può permettersi”. Le immatricolazioni sono diminuite del 20,4% tra il 2003-04 e il 2012-13.
Per Giannini il problema è anche un altro: “C’è nella società una sensibilità diminuita del valore dell’istruzione superiore. È un dato che va oltre la crisi: dobbiamo cercare di reiniettare nella società italiana l’idea che lo studio è l’unico vero strumento di riscatto per l’individuo”. Nonostante la riforma che ha introdotto il 3+2 (laurea triennale + magistrale) abbia, dal 2003 al 2012, fatto passare i laureati in Italia dal 5,5% al 12,7% della popolazione in età da lavoro e dal 7,1% al 22,3% dei giovani tra i 25 e i 34 anni, la media Ue 2012 registrava oltre 35 laureati ogni cento abitanti tra 25 e i 34 anni. Di recente il Cun (Consiglio Universitario nazionale) ha rilevato che a interrompere gli studi sono per lo più i diplomati provenienti dalle aree tecniche e professionali, spesso meno abbienti dei loro colleghi dei licei.
In più si registra un basso tasso di successo: “In Italia solo il 55% degli immatricolati consegue il titolo a fronte di una media europea di quasi il 70%”. Del resto, dopo anni di tagli alle risorse per gli atenei, di tasse di iscrizione sempre più alte, di test di ammissione sempre più diffusi (e contorti), di giovani laureati senza lavoro o sottopagati, era difficile immaginarsi risultati diversi. Cambierà qualcosa dopo questi ennesimi dati sconfortanti?
19 marzo – fonte: ansa