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Sharing economy, vera condivisione o nuove schiavitù?

Sharing_economy_2.jpgGrazie alla rapida evoluzione delle piattaforme digitali, del web e alla diffusione delle nuove tecnologie, la crescita di imprese, attività e strumenti legati a quel che si chiama “sharing economy” è un fatto inevitabile. Come è altrettanto evidente che le potenzialità di questo fenomeno siano innumerevoli. È però importante avere ben presente che le caratteristiche con cui questo fenomeno avanza si porta dietro belle differenze che possono trasformare radicalmente la sostanza e l’impatto sociale di ciò che accade. Come scrive il giornalista Federico Rampini, “non si può banalizzare la sharing economy come un semplice passaggio dalla proprietà all’affitto. Altrimenti non ci sarebbe nulla di nuovo. I taxi esistevano già, come le compagnie di autonoleggio”. 

C’è chi, come Arun Sundararajan, docente della New York University, ritiene che la sharing economy può beneficiare chi ha meno risorse. Ed offre una “ripartizione del benessere” che va a vantaggio dei ceti mediobassi. “Ha un effetto nettamente più positivo – si legge in una sua ricerca – verso i consumatori dai redditi modesti, i quali non potrebbero permettersi la proprietà di certi beni, ma riescono ad avervi accesso”.

Dell’opinione opposta è l’economista Robert Reich, uno dei più autorevoli esponenti della sinistra americana. Reich, docente a Berkeley in California, è convinto che la sharing economy sia parte di un’evoluzione generale, verso un capitalismo sempre più segnato dallo sfruttamento, dalle diseguaglianze e dal ricorso delle imprese a manodopera esterna.

“Voi vorreste vivere  –  scrive Reich  –  in un’economia dove i robot faranno tutto quello che può essere programmato in anticipo, e tutti i profitti andranno ai proprietari dei robot? Nel frattempo agli esseri umani resteranno solo i lavori imprevedibili, piccole mansioni richieste a tutte le ore e remunerate pochissimo”. Per questo Reich parla di “economia della condivisione delle briciole” (“share the scraps”) perché i veri profitti vanno ai padroni del software e le briciole alla manodopera, scaricando sui lavoratori tutte le incertezze e tutti i rischi. Del resto tra l’ideatore di una App che vale miliardi e chi attraverso questa App lavora poche ore ed è sottopagato c’è una bella differenza…

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