Fatte le giuste proporzioni, è come se in Italia fossero entrati 15 milioni di immigrati: un quarto della popolazione. Stiamo parlando del più di un milione di rifugiati ospitati in Libano, uno dei tanti paesi stravolti, letteralmente, dalle migrazioni epocali di questi ultimi anni, attorno alle quali si addensano tragedie umane ma anche recenti polemiche, come quella sui presunti legami tra alcune Ong e i trafficanti di essere umani.
Uno dei driver, cioè dei motori di questi grandi spostamenti di popoli che meriterebbero analisi di ben più ampia portata – e di cui oggi gli esperti maggiormente discutono – sono i cambiamenti climatici. Intrecciati alle ragioni sociali, demografiche, economiche e politiche spingono milioni di famiglie a mettersi in cammino, ma sono più difficili da cogliere. Al punto che manca ancora un preciso inquadramento giudirico (vedi box) per tante persone che oggi fuggono da catastrofi naturali, siccità, alluvioni, carestie, inquinamento dei suoli, smaltimento di rifiuti tossici, e che tecnicamente non potrebbero nemmeno definirsi “rifugiati”, sebbene siano assistiti dalla cooperazione internazionale e dai programmi umanitari delle Nazioni Unite.
I numeri di coloro che vengono chiamati genericamente “migranti ambientali” sono, però, impressionanti e dovrebbero far riflettere, da Trump in giù, su quale sia l’impatto del climate change. Parliamo di quasi 20 milioni di persone nel 2015 (19,2 secondo le stime del Centro internazionale di monitoraggio degli sfollati), distribuiti in 113 paesi ed equivalenti a un terzo dei 60,3 milioni di persone che hanno lasciato invece forzatamente casa per violenze e conflitti (stime Unhcr, Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati). E su un totale complessivo di migranti che sempre riferito al 2015 è di 244 milioni (fonte Nazioni Unite).
Va aggiunto che dai 20 milioni di “migranti ambientali” restano fuori coloro che hanno abbandonato la propria magione prima del 2015 per non farvi più ritorno. E sono tanti, visto che gli sfollati ambientali prima di rientrare a casa (in appena il 40% dei casi) restano lontano mediamente 17 anni! Giorgio Cancelliere – coordinatore del master in Gestione delle risorse idriche nella cooperazione internazionale – ha studiato il fenomeno per l’Università Bicocca di Milano, giungendo a conclusioni poco rassicuranti: «Le previsioni sono catastrofiche: 1 miliardo e mezzo di persone da qui al 2050 saranno colpite dai cambiamenti climatici». Di queste, 200-250 milioni secondo le stime dell ‘Onu saranno rifugiati ambientali.
L’acqua: o è troppa o troppo poca L’acqua può considerarsi il simbolo del problema. O scarseggia in aree crescenti del pianeta, o è troppo abbondante o cade troppo violentemente in altre: alle alluvioni il Gvc, il Gruppo di Volontariato Civile bolognese, attribuisce per bocca della sua presidente, Dina Taddia, «il 75% delle emergenze umanitarie degli ultimi anni». Nel 2050 l’Ocse ha calccolato che circa 4 miliardi di persone potrebbero vivere in zone dove l’acqua, fattore di vita e di sviluppo, risulterà introvabile o inaccessibile, o avranno abbandonato isole e città costiere minacciate dall’innalzamento del livello dei mari.
La “crisi idrica” si configura tra i maggiori rischi globali che, per il World Economic Forum, stanno alla base di conflitti e movimenti migratori, acuita da fenomeni come la privatizzazione del ciclo dell’acqua e il land e water grabbing (accaparramento di terre e risorse idriche da parte degli Stati più ricchi). Per fare dell’accesso all’acqua un diritto di tutti e portarla pulita là dove non c’è, il Gvc ha lanciato la campagna #gocciaAgoccia cui si può aderire online sul sito www.gocciaagoccia.org.
La mappa delle crisi climatiche Le crisi climatiche sono in atto in molti luoghi del pianeta. Talvolta determinano spostamenti di persone all’interno degli Stati (e si parla di sfollati), altre volte esodi oltreconfine (e si parla di rifugiati). Tra le più recenti, la crisi in Siria dove la siccità ha spostato, tra il 2006 e il 2010, milioni di abitanti verso le città, aggravando la ben nota crisi politica; poi ci sono i paesi del Sahel che nel 2008 hanno perso il 75% delle terre arabili e l’intero Corno d’Africa a cominciare dalla fragile Somalia dalla quale, nel 2010-2011, sono migrate 1,5 milioni di persone verso i paesi confinanti. Numeri davvero impressionanti.
Il ripetersi di periodi di siccità ha mosso, negli ultimi anni, un milione di somali, 4,5 milioni di sudanesi e 10,5 milioni di etiopi verso zone più vivibili. Quasi sempre si tratta di “travasi” nei paesi limitrofi, anch’essi ad alto tasso di povertà, che si sobbarcano così il peso maggiore dell’accoglienza. Solo una piccola parte arriva sui barconi nella Ue dove i richiedenti asilo sono pari allo 0,1% della popolazione.
Se guardiamo ancora ai grandi numeri, è di gran lunga più colpita l’Asia meridionale e orientale su cui grava anche un alto tasso d’inquinamento da arsenico delle falde acquifere e pesa la costruzione di grandi dighe, mediamente 100 all’anno, causa di delocalizzazione di intere città. Si contano 3,7 milioni di sfollati dall’India, 3,6 dalla Cina e 2,6 dal Nepal. Il problema è che questi paesi sono anche quelli con la più alta riduzione del Pil prevista per i prossimi anni: dal -7% di Asia Orientale e Africa Centrale al -14% per il Medio Oriente. Le catasfrofi naturali non risparmiano, infine, l’America Latina, dove in aprile, in Colombia, una valanga di detriti ha ucciso quasi 300 persone, né l’America settentrionale.
Eventi climatici estremi, vulnerabilità ed esposizione al rischio sono solo alcune delle conseguenze – come ha ricordato il meteorologo Carlo Cacciamani al convegno Le mani sull’acqua organizzato dal Gvc a Bologna – di «un aumento della temperatura senza eguali negli ultimi 150 anni nella storia della terra. Oggi possiamo soltanto gestire il rischio climatico con azioni di mitigazione e di adattamento». Peccato che i paesi che subiscono i più violenti shock ambientali siano proprio quelli che non hanno le risorse per reagire con le necessarie strategie di adattamento, dai piani di allerta a quelli di accoglienza.
Migrare, una strategia di adattamento È noto a tutti che i flussi migratori generano conflitti economici e culturali nelle comunità di arrivo. Pochi tuttavia riflettono sul fatto che i muri, oltre a non poterli fermare, creano dei recinti della disperazione. «La mancata migrazione aumenta la conflittualità nel paese di origine», rivela lo studio di una economista della Fondazione Eni Enrico Mattei, Cristina Cattaneo. «Costringere un popolo a non muoversi – afferma la ricerca – è di per sé causa di conflitti». Si parla in questi casi di “persone intrappolate”, private cioè di una via di fuga. Il problema va dunque ribaltato: la migrazione da spauracchio può diventare una “importante strategia di adattamento climatico”.
Ci sono inoltre fondate ragioni economiche e di sviluppo per cui conviene che i flussi migratori seguano canali ufficiali e regolari. «Se ben gestita una migrazione è un’opportunità per un paese, oltre a rappresentare una valvola di sfogo». Margherita Romanelli, che per conto del Gvc opera in Cambogia e in Thailandia, può testimoniare che «l’80% dei cambogiani che si reca a lavorare in Thailandia è privo di documenti». Eppure le rimesse inviate nel paese di provenienza aiutano quest’ultimo a risollevarsi – racconta – e sono una risposta alla povertà crescente. È la cosiddetta “migrazione circolare”, che fa a pugni con quella clandestina e che andrebbe incentivata con adeguate politiche.
Ma dove e come vengono ospitate tante persone per così lunghi periodi di tempo? Trovano riparo in grandi campi profughi in cui, per anni, permangono dai 50 ai 50 mila rifugiati con problemi di tutti i tipi facilmente immaginabili. Piccole città che pongono anche questioni di sostenibilità e il cui impatto ambientale può essere devastante. Per attenuarne gli effetti, l’Unhcr arriva a distribuire, dall’Africa all’Asia, mattoncini di biomassa per cucinare evitando, così, eccessivi tagli di legna e la deforestazione. In Giordania l’agenzia dell’Onu ha previsto anche lampade solari «che oltre a fornire energia aumentano la sicurezza notturna negli spostamenti di donne e bambini». La portavoce Unhcr Carlotta Sami descrive i campi di Ciad e Nigeria come di altre parti del pianeta dove i rifugiati ricevono un piccolo appezzamento di terreno e i semi per coltivarlo.
Che fare, in futuro, per gestire la crisi crescente dell’acqua e quali politiche adottare per i migranti ambientali? La domanda è di quelle con tante risposte e in fondo nessuna. O forse una: cambiare modelli e strategie di sviluppo. Riccardo Petrella, noto economista politico e promotore del Contratto mondiale sull’acqua, suggerisce questa strada invitando, con ottimismo, a «iniziare a cambiare il mondo goccia a goccia, spaccando le rocce».