Ha lottato contro l’analfabetismo uscendo dalle aule e inseguendo ai ragazzi per le strade di molte città d’Italia. Oggi Marco Rossi Doria è sottosegretario all’Istruzione. A lui abbiamo chiesto come si è creata questa situazione e che fare per uscirne.
Oltre il 70% degli italiani non è in grado di comprendere un testo scritto di media complessità. Cosa ha provocato questa catastrofe sociale?
È un fenomeno complesso e sono quindi complesse anche le cause. Intanto siamo un Paese che ha conquistato la scolarità di massa e vinto la lotta contro l’analfabetismo relativamente tardi. Nel 1900 l’analfabetismo in Italia superava il 48%, mentre in Austria era vicino all’1%. L’Italia sconfigge questa piaga soltanto dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ed è nel 1962, con la riforma della scuola media unica, che si realizza finalmente il dettato costituzionale che prevede otto anni di scuola obbligatoria per tutti. Quindi siamo un Paese che ha conquistato le lettere da poco e con forti divari territoriali. La società di massa, con le sue radio e soprattutto con le sue televisioni, è arrivata in un tessuto sociale caratterizzato da un’alfabetizzazione recente, da grandissime differenze nei livelli di istruzione sia tra zone geografiche sia tra gruppi sociali. Abbiamo cioè imparato a guardare la TV prima di esserci abituati a leggere molti libri e molti giornali.
In che misura le condizioni economiche e materiali di tante famiglie incidono su questo fenomeno? Sono stati praticamente azzerati anche i fondi per il diritto allo studio. L’Italia è dunque un paese sempre più classista, anche nell’ambito dell’istruzione?
Sappiamo con certezza che nel nostro Paese coincidono le mappe della povertà economica con quelle della povertà di istruzione. Questa corrispondenza dà origine a un circolo vizioso difficile da spezzare: chi è figlio di genitori che hanno studiato poco e sono poveri ha maggiori probabilità di interrompere presto gli studi e formare una nuova famiglia povera. A mio avviso sono due le cause principali: una scuola iperstandardizzata, che fatica a trattenere i bambini e i ragazzi che più avrebbero bisogno di una buona istruzione, per colmare ritardi e divari di origine familiare; un’agenda politica poco attenta alla questione della povertà e poco predisposta a mettere in campo misure efficaci, non di tipo assistenzialista ma nella direzione della vera promozione sociale delle persone.
Per superare queste mancanze serve una scuola capace di effettuare discriminazioni positive dentro a un’idea ricca di uguaglianza, basata sul principio di dare di più a chi parte con meno, e serve una politica di welfare innovativa e partecipata nei territori più in difficoltà. Bisogna inoltre realizzare percorsi di apprendimento nell’arco della vita: consentire a chi ha lasciato gli studi di riprenderli da adulto, di formarsi e aggiornarsi più volte. E garantire su tutto il territorio percorsi di formazione professionale e apprendistato di qualità. Per troppo tempo abbiamo pensato che il “saper fare” fosse un sapere di serie B in cui non conta “saper imparare”. Oggi, poi, conoscere il mestiere significa anche dover apprendere con i mezzi informatici e la rete, sapere l’inglese, avere elementi di cultura generale, apprendere ad apprendere.
Garantire il diritto allo studio è un obbligo costituzionale: dopo una stagione di tagli all’istruzione, tra il 2008 e il 2011, stiamo finalmente riuscendo a invertire la tendenza. Nel decreto sull’istruzione convertito in legge di recente dal Parlamento sono previsti nuovi investimenti per il diritto allo studio, il welfare dello studente e il contrasto all’abbandono scolastico.
Dalla televisione a internet, dalle tecnologie digitali agli smartphone: che tipo di ruolo hanno giocato questi fattori, specie tra i più giovani?
Ho assistito a questi cambiamenti facendo il maestro elementare. Ho un’opinione abbastanza negativa degli effetti della televisione: i ragazzini dei quartieri poveri della zona di Napoli, che un tempo giocavano e socializzavano nei cortili e nelle strade, avevano molte difficoltà ma sapevano chi erano e sapevano fare tante cose. Facevano volare gli aquiloni, costruivano carretti, eccetera. La TV ha tolto dalla strada e dai suoi pericoli ma ha sottratto anche identità, socialità, esperienza del mondo. Ha presentato modelli irraggiungibili, di successo facile, aumentando frustrazione ed apatia. I mezzi di comunicazione non vanno mai demonizzati e la TV ha cambiato anche in modo positivo le nostre vite. Però ci ha indubbiamente tolto qualcosa. Vi è poi una televisione educativa – che in Italia ha fatto del bene, ma che da anni è purtroppo minoritaria.
E invece cosa pensa delle tecnologie digitali?
Sono strumenti interattivi e di socializzazione e inoltre prevedono sempre un ruolo attivo dell’utente. Qui io credo che siamo di fronte a un cambiamento davvero epocale, non soltanto culturale, ma antropologico. I bambini e ragazzi di oggi imparano in modi diversi da come imparavamo noi. Le scuole si stanno confrontando con tutto questo e ci raccontano di tante difficoltà a tenere l’attenzione dei cosiddetti “nativi digitali”, ma anche di tante potenzialità per innovare la didattica. Noi adulti dobbiamo stare sempre attenti a non negare la quantità di sapere e capacità che i ragazzi dimostrano – spesso superiore alla nostra – nella padronanza dei mezzi tecnologici. La scuola deve ormai prenderne atto e aprire le porte a queste competenze. Poi però ci sono delle cose su cui si deve continuare a lavorare come una volta: fare il dettato, curare l’ortografia, saper fare le operazioni, eccetera. Questi sono i cosiddetti alfabeti di cittadinanza: conoscenze e competenze irrinunciabili che ciascuno deve acquisire presto e in modo solido, perché servono per tutta la vita. Infine dobbiamo stare attenti perché questi nuovi mezzi creano anche nuovi “gap” che si sommano a quelli precedenti: il “digital divide” ne è un esempio. Oggi saper utilizzare un pc per fare una semplice ricerca di informazioni su Internet è una competenza che fa la differenza tra chi può esercitare la cittadinanza in un certo modo e chi no.
Quali conseguenze – e quali sofferenze verrebbe da dire – si porta dietro questa condizione?
Quelle che sono sotto gli occhi di tutti: in Italia i consumi culturali sono infimi, la dispersione scolastica rimane tra le più alte d’Europa e c’è indubbiamente una scarsa cultura democratica, che è parente stretta di una società con divari enormi al proprio interno e in possesso, mediamente, di pochi strumenti critici ed analitici validi per affrontare il presente e costruire le proprie opinioni informate. Quel che è peggio è che aree intere del Paese sono abbandonate al rischio di esclusione economico-sociale proprio a causa del circolo vizioso tra povertà e povertà di istruzione. Questa determinazione sociale e geografica delle opportunità è una contraddizione enorme e intollerabile per un Paese democratico, europeo, membro della cerchia dei paesi cosiddetti “avanzati”.
Lei, professore, ha a lungo lottato contro l’abbandono scolastico. La battaglia però non è stata vinta: l’Italia è uno dei paesi con il più alto tasso di abbandoni o con una frequenza scolastica tanto precaria da rendere impossibile il conseguimento del successo formativo. Quali errori sono stati compiuti? C’è stata la reale volontà politica di contrastare il fenomeno?
La battaglia non è ancora stata vinta – siamo al 18,2% di abbandoni scolastici precoci, contro una media europea del 13,5% e lontani dall’obiettivo per il 2020 del 10%. Va detto, però, che la dispersione è in calo costante, seppure molto lento, da almeno vent’anni. Alcune cose sono state fatte: è aumentata la conoscenza e la consapevolezza attorno al fenomeno. Ne conosciamo le cause e, grazie a positive esperienze realizzate da attori pubblici e del privato sociale, come il progetto “Chance” a Napoli o “Provaci Ancora Sam” a Torino e altri, abbiamo anche qualche idea su come prevenire gli abbandoni e recuperare chi ha lasciato la scuola per offrire una seconda occasione formativa. È mancata la continuità: spesso queste esperienze, invece di essere fatte proprie dalle istituzioni, sono state lasciate sole. Alcune continuano a lavorare nonostante le crescenti difficoltà, altre hanno chiuso. Ciononostante alcune di queste pratiche hanno trovato diffusione all’interno di tante scuole “normali”.
È da molti anni, purtroppo, che l’istruzione non è al centro dell’agenda politica nazionale. Per alcuni di questi anni, addirittura, si è parlato di scuola come di un peso sulla finanza pubblica. Questo non ha certo aiutato a sostenere le pratiche più efficaci che tante scuole portano avanti. Per fortuna, come dicevo, stiamo riuscendo con il Ministro Carrozza a invertire questa tendenza. Io credo che i tempi siano maturi per accelerare su questo piano e raggiungere i livelli europei nel giro di qualche anno.
Cosa direbbe a un giovane che decide di interrompere gli studi?
Gli direi che a volte noi adulti tendiamo a pensare che chi lascia la scuola non potrà fare niente nella vita, o peggio, in certe zone, diventerà di sicuro un criminale. Invece non è così. Certi automatismi sono sbagliati e controproducenti. Se un ragazzo ha lasciato gli studi, molto probabilmente avrà ottime ragioni di risentimento verso la scuola. Gli direi di pensare bene a cosa vuole fare, di immaginare un mestiere che gli piace e di provare a farlo. Tenendosi pronto per ricominciare a formarsi altre volte nel corso della vita, per prendere il titolo che ora non ha raggiunto e chissà, magari prenderne anche altri in futuro. C’è chi è andato più tardi alle scuole serali, con successo. Dobbiamo potenziare tutte le occasioni di studio permanente e ricorrente nelle diverse età. Nella vita niente è mai detto una volta per sempre.