Come per il Covid-19, anche per le notizie che lo riguardano esiste un tasso di contagio, un erre con zero (R0). E se la notizia è falsa, la velocità con cui si propaga “senza protezione” attraverso Internet la amplifica a tal punto da renderla vera, o meglio “virale“, creduta cioè da un elevato numero di persone che sono in cerca proprio di quella notizia e si compiacciono nel trovarla.
Su questo “contagio” c’è uno studio interuniversitario con veri e propri modelli epidemiologici, da cui si è vista la grande portata della “infodemia”, cioè della marea di notizie sul Covid-19 all’interno delle quali – come scrive l’Unione europea – è montata “un’inondazione di informazioni sul virus, spesso false o inaccurate, diffuse sui social per creare confusione e compromettere l’efficacia della risposta sanitaria pubblica”. Tutte le 5 piattaforme social considerate nel periodo gennaio-febbraio presentavano R0 critici, ampiamente sopra la soglia di 1 (Covid-19 Social media infodemic, marzo 2020).
Tutti noi – mentre la scienza andava in cerca di soluzioni, mostrandosi divisa al proprio interno – abbiamo assistito a una escalation non solo di notizie, ma di ricette anti-Covid e di bufale spacciate per verità taciute dai media “mainstream”. Eccone un breve riassunto: nella fase 1, la vitamina C che guariva se somministrata ad alte dosi, il contagio trasmesso dalle zampe dei cani, fino a Bill Gates che avrebbe creato il virus per dominare il mondo. Nella fase 2 il vocale Whatsapp dell’italiano bloccato a Wuhan che raccontava dell’esercito autorizzato a sparare a vista. l’ibuprofene che peggiora il decorso della malattia, l’emergenza sanitaria dovuta alle antenne 5G, e così via bufalando.
Va precisato che esistono notizie false involontarie (misinformazione) che possono essere credute vere sulla base di emozioni e pregiudizi (post-verità), ma anche notizie manipolate e organizzate a tavolino da chi gestisce i mass-media (disinformazione vera e propria). Queste ultime, difficili da individuare e isolare, sono il cavallo di Troia dei regimi e vengono attentamente monitorate.
È interessante, ad esempio, quanto ci riportano l’Agcom (Osservatorio sulla disinformazione online) e uno studio dell’Ateneo Ca’ Foscari riguardo all’attenzione attribuita dalle “fonti di disinformazione” al coronavirus: un terreno fertile per la sua grande scivolosità. Le fake news sul Covid-19 hanno toccato punte del 60% giornaliero del totale della disinformazione online a marzo, nel periodo del picco, per poi ridiscendere seguendo la curva del virus. L’incidenza dei falsi durante il “lockdown” ha oscillato intorno al 5% del totale delle notizie online sulla pandemia, con una maggiore virulenza nella prima fase epidemica (1° gennaio – 20 febbraio), quando la buona informazione non aveva ancora recuperato terreno, e una presenza più marcata su Facebook rispetto alle altre piattaforme.
Ma continuiamo con la nostra ricostruzione. Nella fase 3, ecco che accanto al coronavirus come ceppo del virus dell’influenza mutato, e alle mascherine che arrivano a soffocare i bambini, vediamo riesplodere le teorie apocalittiche e complottiste, dal video Plandemic (poi rimosso dal web), all’idea sempre suggestiva che le multinazionali del farmaco avrebbero costruito il virus in laboratorio per vendere il vaccino a peso d’oro.
In tutti questi casi assistiamo alla «violazione dell’onere della prova», come lo chiama lo scrittore e magistrato Gianrico Carofiglio, ovvero «all’obbligo, per chi asserisce qualcosa, di provare la propria asserzione qualora richiesto». L’onere viene ignorato quando non ribaltato e le prove, se ci sono, non sono provate. Comunque non attraverso il metodo scientifico che procede per congetture confutabili (principio di falsificabilità di Popper) e non per affermazioni indimostrabili o rivelazioni fatte isolando gli elementi a conferma delle proprie convinzioni.
È anche vero che la teoria del virus costruito in laboratorio si colloca, tutto sommato, già a un livello più alto, e i dubbi su quale sia il confine tra una bufala e una ipotesi su cui indagare (5G compreso) complicano la faccenda. Nemmeno si può ignorare che esistano diverse scuole di pensiero intorno alla medicina e all’inf0rmazione stessa.
Guerra d’interessi Chi decide quando una notizia è falsa? Solo le istituzioni pubbliche sono deputate a farlo? O addirittura quelle private come Facebook? Queste sono le domande di fondo di chi si dichiara “fuori dal sistema” e invita a dubitare, oltre che di Internet, anche dei media tradizionali e della comunicazione istituzionale. Ma chi, soprattutto, ha interesse a mettere in circolazione una fandonia – rispondono altri – e come combattere questo fenomeno tipico dei nostri tempi, che trasforma la libertà di espressione in strategia per l’accaparramento del consenso e in guerra di interessi (politici, economici, ecc.) basata su teorie prive del necessario supporto scientifico?
La Ue risponde netta che «alcune potenze straniere mirano a compromettere le nostre democrazie». E fa i nomi: «Russia e Cina», contando 550 esempi dalla Russia di informazioni sanitarie fasulle, del tipo «lavarsi le mani non serve a nulla» o «il Covid uccide solo gli anziani». L’Italia è tra i paesi più colpiti e le manifestazioni di piazza inneggianti alla “dittatura sanitaria” lo proverebbero.
Senza volerci addentrare troppo in scenari da cyber guerre mediatiche (dalla pandemia alle prossime elezioni americane di novembre), o parlare dell’odio che alimenta online caos e sfiducia nelle istituzioni, limitiamoci a come spezzare la catena del contagio da fake news. L’Europa suggerisce che proprio per evitare il rischio di censura e rispettare il pluralismo del dibattito democratico, dobbiamo combattere l’uso pianificato della cattiva informazione per finalità politiche. «Tutte le opinioni sono legittime e rispettabili ma a partire dai dati di realtà», ammonisce il professor Ruben Ruzzante, docente di diritto dell’informazione alla Cattolica di Milano, membro della task force del governo contro le fake news. Come tornare, dunque, a fidarci dell’ecosistema mediatico di cui – va sottolineato – siamo tutti parte attiva nell’epoca del digitale?
I verificatori dei fatti Se avete dubbi su una notizia o una fotografia, ci sono i verificatori dei fatti, cioè persone od organizzazioni che controllano una news prima e dopo la sua diffusione. Nel web trovate piattaforme dedicate al “fact cheking” e c’è un’omonima branca del giornalismo che si occupa di “debunking” (sbufalamento, smascheramento). È una delle peculiarità di un mestiere che meriterebbe maggior rispetto se fatto bene, anche perché predica la necessaria distanza nel contagio informativo in cui siamo tutti immersi fino ai capelli.
Si è irrobustita, intanto, la schiera di chi prova a contrastare falsi e operazioni manipolatorie. Già a inizio quarantena, il governo ha creato la sua task force e dal ministero della Salute tutti i giorni arrivano sui telefonini dati ufficiali e smentite. Probabilmente è come svuotare il mare con un cucchiaino, ma le alternative sono meno efficaci e richiedono tempo. Tra l’uscita di una notizia e la controparte fake trascorrono in media tra le 3 e le 21 ore. Dopo 24 ore la disinformazione è già in circolo. «Se non si previene con adeguate strategie comunicative, non rimane che il ricorso al debunking, cioè smontare pezzo per pezzo le notizie false, pratica che abbiamo visto essere poco efficace perché rischia di innescare nuovamente l’ondata di disinformazione». A dirlo è Fabiana Zollo, ricercatrice dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e consigliera del governo. Quella di diffondere una informazione corretta e ricavata da fonti autorevoli, se non proprio ufficiali, resta la principale arma a disposizione. E c’è poi il modo in cui la si diffonde a fare la differenza. Con un algoritmo, inoltre, si possono prevedere i temi più suscettibili alla disinformazione con un’accuratezza del 77% e mettere in atto le contromisure prima che sia tardi. E qui si apre un mondo, quello degli algoritmi e delle intelligenze artificiali, in grande evoluzione (vedi box). In tanti settori si cerca così di correre ai ripari: dalla scuola con l’iniziativa “antibufale” della Polizia di Stato che ha veicolato i messaggi corretti durante l’esame di maturità, all’alimentazione con l’Enea che ha lanciato “Metrofood-ri”, banca dati sulla sicurezza alimentare e il contrasto a frodi e sofisticazioni; fino alla richiesta di una commissione parlamentare sulle fake news da parte dell’authority per le comunicazioni.
Social e contro-narrazione Gli stessi social network hanno alzato gli scudi. Facebook e Youtube si sono impegnati a promuovere solo notizie basate su fonti autentiche e a rimuovere le altre. Ancora troppo poco però, e così al grido di “Facebook diffonde odio e razzismo” è partita una campagna negli States di boicottaggio della pubblicità, a cui hanno aderito Coca-Cola, Unilever e altri potenti marchi. Facebook incassa il 98% dei suoi 70 miliardi di dollari di ricavi annui dalla pubblicità, e quello che non si perdona a Zuckerberg è l’approccio soft al problema. C’è poi Instagram, che segnala esplicitamente i contenuti fuorvianti e falsi fornendo la possibilità di accedere alle motivazioni. Ma il social più deciso di tutti è Twitter che, a margine di alcuni post di iscritti, rinvia a pagine di “fact checking” attirandosi con ciò le critiche dello stesso Donald Trump, di cui ha etichettato come possibili fake due tweet. È anche vero che gli utenti bloccati si trasferiscono poi su altre piattaforme, Tik Toc ad esempio. Il potere così scava nuove strade per riaggregare il consenso sulla scia di quanto si è visto con il coronavirus. Un’operazione che può nuocere gravemente alla salute, ammonisce la Ue. «I pericoli non sono finiti con l’affievolirsi dei contagi», si legge infatti nella Comunicazione sulla disinformazione relativa alla pandemia. «La disinformazione sui vaccini continua e probabilmente renderà più difficile la loro distribuzione quando saranno a disposizione». Contro la propaganda malevola straniera, l’esecutivo propone una cooperazione tra Ue e Oms fino ad arrivare a coinvolgere un’alleanza militare come la Nato. Obiettivo: rimuovere i falsi dal web e costruire una contro-narrativa di contrasto alle fake news.