Nel 2013 sono già 13 (al momento in cui scriviamo). Uccise dai loro mariti, ex compagni, padri dei loro figli. Come Donika Xhafa, 47 anni, uccisa a colpi di pistola dall’ex marito Raffaele Varraro, 59 anni. Lei aveva accettato di rivederlo. Come Antonia Stanghellini, 47 anni, uccisa a coltellate dall’ex marito Mustafa Hashani, 46 anni. Lei lo aveva lasciato da un anno, ma lui non accettava la fine della relazione ed era ogni giorno più violento e minaccioso. Come Giuseppina Di Fraia, 52 anni, investita con l’auto, picchiata e poi data alle fiamme dal marito Vincenzo Carnevale. è morta dopo giorni di agonia.
Nel 2012 sono state 124, e le storie sono sempre le stesse. Cambiano le età, le condizioni sociali ed economiche, i paesi o le città, ma il meccanismo resta uguale: anni di maltrattamenti da parte di lui, spesso denunce, richieste d’aiuto rimaste inascoltate, lei che se ne vorrebbe andare, ma ha paura. Fino a che un giorno – forse perché non se ne può più o s’intravvede la speranza in un aiuto dall’esterno – la vittima si convince a fuggire. Ma lui la trova e l’uccide. Tutte morti annunciate, quelle di queste donne: più del 70% delle uccisioni arriva dopo anni e anni di denunce da parte della vittima. Però quasi sempre si parla di raptus e gli uomini, sui giornali, sono tutti “insospettabili“.
Una strage, e senza considerare tutto il resto: senza considerare i maltrattamenti, le lesioni, i tentati omicidi (46 nel 2012), gli stupri. A dire la verità, la triste conta delle morte è piuttosto controversa. Dovrebbe essere un atto dovuto in base alle leggi da parte del ministero dell’interno (e sarebbe anche richiesto dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne), eppure non si fa, privando le istituzioni di contrasto al fenomeno di un’importante chiave di lettura. Allora si sono messe a farlo le stesse donne: nella fattispecie, oggi la fa la Casa delle Donne di Bologna. L’indagine parte dalla cronaca, della stampa locale e nazionale (anche se non tutti i femicidi vengono raccontati sui giornali).
Ecco dunque i fatti: negli ultimi cinque anni c’è stato un aumento del 26% delle donne uccise. Tra il 2000 e il 2011 sono state uccise 2.061 donne (dati Eures da Ansa). Il 30% degli omicidi totali sono femicidi (cioè omicidi nei confronti delle donne in quanto donne). Succede un giorno ogni tre. Come spiega Riccardo Iacona autore del libro “”Se questi sono gli uomini” – se “una specifica categoria di cittadini venisse trucidata con la stessa costanza, scoppierebbe un gran casino. Invece in Italia nessuno fa nulla, perché in Italia c’è una violenza endemica nei confronti delle donne e un sostanziale condono nei confronti dei carnefici”.
Il femicidio è dunque un assassinio esito di atteggiamenti e pratiche sociali misogine. Esito, cioè, della violenza esercitata contro donne che non rispettano le aspettative dell’uomo (e della società patriarcale). Infatti il 70% e più dei femicidi è compiuto all’interno della famiglia, generalmente da parte del partner. “Violenza di genere – spiega Titti Carrano, avvocata e presidente dell’associazioe Di.Re che raccoglie 63 centri antiviolenza in Italia – cioè violenza che nasce dalle disuguaglianze tra uomo e donna, disuguaglianze che oggi, in tempi di crisi, sono anche economiche”.
Inasprire le leggi? “La violenza contro le donne non è un problema di ordine pubblico”, spiega Carrano. “Se l’obiettivo è salvare la vita delle donne, perché non creare per loro un sistema di protezione come si fa per i pentiti di mafia? E poi perché considerare la gelosia un’attenuante? Occorrerebbe poi una formazione adeguata per tutti gli operatori, specie per quanto riguarda le forze dell’ordine che si trovano ad affrontare il problema, per evitare minimizzazioni ed errori che possono essere fatali”, dicono dalla Casa delle Donne. “Va applicata la legge sullo stalking – chiede invece Iacona – e vanno finanziati i centri antiviolenza. In Italia ce ne sono meno che in Grecia e Turchia”.
Che cosa sono i centri antiviolenza? E quanti sono? “Sono uno strumento imprescindibile per contrastare attivamente questa strage – spiega Titti Carrano. – Si tratta di strutture che offrono alle vittime assistenza psicologica, legale e anche sociale, favorendo il reinserimento anche lavorativo della donna che spesso, lasciando il marito, perde tutto: lavoro, casa, reddito”. Soprattutto, però, un centro antiviolenza dovrebbe poter offrire anche la fuga in una casa con l’indirizzo segreto “perché è proprio quando la donna trova il coraggio di andarsene che il partner l’ammazza”, spiega Angela Romanin della Casa delle donne di Bologna (e infatti il 67% dei femicidi avviene dopo la separazione). Purtroppo, invece, non solo i centri antiviolenza sono insufficienti, ma in più non sempre possono offrire rifugio alle donne maltrattate.
“In tutta Italia sono 127 – spiega Titti Carrano – diffusi sul territorio a macchia di leopardo: ci sono regioni come il Molise o la Val D’Aosta che ne sono del tutto prive. La capacità complessiva dei posti letto nelle case rifugio, al momento, è pari a 500. Ma secondo una raccomandazione del consiglio d’Europa, risalente al 1999, dovrebbe esserci un centro antiviolenza ogni 10mila persone e un centro d’emergenza ogni 50mila abitanti. Sul territorio nazionale dovrebbero quindi esserci 5.700 posti letto, non 500”. E per di più anche questi sono sparsi sul territorio in modo non omogeneo, cosicché talune regioni ne sono pressoché sfornite”. Meglio di noi, come riporta anche Iacona nel suo libro edito da Chiarelettere, tutti i paesi europei: in Spagna 4.500, in Germania 7.000, in Inghilterra 3.890, in Francia 1.100. “In più – prosegue l’avvocato Carrano – i centri sono scarsamente finanziati: dei 63 aderenti a Di.Re, solo 1/3 ha finanziamenti adeguati. Non esiste una linea di finanziamento da parte dello Stato, ma solo quella assicurata dagli enti locali, Comuni e Province. Che spesso, poiché hanno a loro volta subito pesanti tagli, non finanziano continuativamente i centri. Lo scorso governo ha emanato un pubblico bando da 10 milioni per potenziare l’attività dei centri esistenti o aprirne di nuovi: cifre importanti, ma non sufficienti, proprio perché una tantum”. Eppure, uno specifico osservatorio Onu sui diritti umani (detto ‘special rapporteur’) richiama l’Italia a considerare che la situazione politica ed economica non giustifica la mancanza di attenzione e la diminuzione delle risorse per combattere la violenza contro le donne.
Violenza che è destinata a crescere ancora, secondo il conduttore di Presadiretta, che per documentarsi è andato sui luoghi dei femicidi e ha parlato con parenti e amici delle vittime e degli assassini. “Se non facciamo niente per fermarli, aumenteranno, in modo direttamente proporzionale al desiderio di autonomia delle donne ammazzate. E aumenteranno anche perché nel nostro paese c’è un terribile processo di rimozione nei confronti di questa strage. Tendiamo a dire: non mi riguarda è una storia di pazzi, un problema loro. Manca anche un’assunzione di responsabilità politica. Figuriamoci, il ministero non tiene neppure il conto di quante ne muoiono. Ma ogni donna ammazzata nel nostro paese è il segno drammatico della débâcle dello Stato”.