Nativi digitali
Opportunità e incognite per una nuova generazione
C'è una specie in via di apparizione che si aggira per il mondo. Li chiamano Nativi Digitali e sono nelle nostre città, nelle nostre case. Sono adolescenti iperconnessi a internet. Il loro mondo non prevede vecchie e nuove tecnologie come per noi. Per loro le tecnologie ci sono sempre state, sono il loro ecosistema naturale. Il telefono ad esempio più che uno strumento è una propaggine. La lingua madre di questi nostri ragazzi è digitale e parla il linguaggio degli smartphone, dei computer, dei videogames.
Con questa lingua nuova scrivono e condividono parole, immagini e suoni su blog e social network. Elaborano prodotti multimediali spesso lavorando in gruppo e con approcci nuovi, creativi, cooperativi. Numerosi studiosi ritengono che tali attività possano favorire l'apprendimento e lo sviluppo di competenze utili a fargli trovare il loro posto nell'economia del Ventunesimo secolo, ma anche per costruire un'identità resiliente, ovvero capace di resistere alle mutazioni in corso: che sono tante e a tanti livelli.
Sarà anche così, ma viene da chiedersi: "è possibile che queste competenze possano essere acquisite dai ragazzi in totale autonomia e fuori da un progetto educativo all'altezza dei tempi?"
Difficile pensarlo, ma anche realizzarlo visto lo stato in cui versa la scuola italiana il cui corpo docente "vanta" le retribuzioni più basse d'Europa e l'età media più alta.
Ecco che i nativi digitali smettono di essere soggetti da studiare e diventano punto privilegiato dal quale guardare il futuro dei nostri figli e del nostro Paese.
Un futuro che non può prescindere dal ruolo dei genitori e dell'istituzione scolastica, che si ritrovano improvvisamente inadeguati di fronte alla dirompente mutazione delle forme di apprendimento e trasmissione del sapere in atto.
La scuola arranca tra riforme penalizzanti e gesti coraggiosi di alcuni docenti che hanno dismesso il piagnisteo. E prova a trasformarsi, con buona pace degli apocalittici e di quei nostalgici di presunte età dell'oro dell'educazione. Quelli ancora affezionati a un sistema scolastico progettato e organizzato per un'altra epoca.
Prima del 1850 non esistevano istituzioni scolastiche come quelle a cui siamo abituati e che conservano ancora alcune caratteristiche tipiche del "sistema fabbrica", centrale in quell'Europa che stava avviando la sua rivoluzione industriale: la campanella, i reparti, le specializzazioni e così via.
Modelli d'apprendimento da catena di montaggio che oggi non sembrano essere più in grado di "abilitare" i nostri ragazzi.
"L'enciclopedismo è morto con le nuove tecnologie – dice Paolo Ferri, autore del libro Nativi digitali. I campi del sapere sono talmente dinamici e liquidi che pensare di poterli trasferire alle medie o alle superiori è completamente folle."
Bisognerebbe adottare una politica di riduzione dei campi del sapere per lasciare spazio a un approfondimento verticale di natura metodologica sicuramente più importante rispetto a un'infarinatura enciclopedica. Il passaggio da compiere con i nativi digitali – prosegue Ferri – è quello "dai contenuti alle competenze" che vuol dire una cosa semplice da capire e difficile da realizzare nelle nostre scuole: "imparare come si impara".
Oggi, visto che fuori dalla scuola, i nativi apprendono molto di più di una volta, è quantomai necessario insegnare a discernere le cose salienti dal ciarpame.
Il ruolo che la scuola dovrebbe ritagliarsi è quello di far comprendere a questi adolescenti che quella loro cultura informale basata anche sul videogioco evasivo, può diventare un potentissimo strumento di apprendimento, di crescita individuale e di comprensione dei problemi. A patto che dei media venga fatto un uso creativo e critico. In altri termini solo se si comprende che you tube non è solo un deposito di video clip, ma anche un formidabile database per l'apprendimento: dal National Geographic a tanti e ottimi canali educational.
E se la scuola piange non ridono certo i genitori che "dovrebbero essere la componente solida in un sistema liquido di relazioni" dice Paola Milani docente alla Facoltà di scienze della Formazione dell'Universita di Padova e curatrice di Sostenere la Genitorialità, un'opera che va dritta al punto: "educare i genitori a fare i genitori".
Si parla tanto di digital divide, ma il più diffuso è probabilmente quello tra la cameretta dei figli zeppa di tecnologia e il salotto di casa dove ancora resiste, impolverata la tv. È qui il primo grande divario tra nativi e immigranti o ignoranti digitali.
Eppure, la strada per superare questo gap che non è solo generazionale ma addirittura antropologico, esiste. La parola chiave è condivisione. Serve fatica e un certo spirito d'avventura da parte dei genitori. Non è semplice, ma in gioco c'è la conoscenza del mondo dei propri figli. Il rischio altrimenti è di perdersi un terzo o un quarto della loro vita e soprattutto di non sostenerli nel rapporto coi media che maneggiano.
È la media education la grande assente. Nel nostro sistema scolastico non esiste la disciplina "Educazione ai media", ma visto che l'Europa ci prescrive la competenza digitale allora sarà il caso di portarcela nelle nostre scuole. Perché competenza digitale vuol dire anche competenza critica che insegna come utilizzare produttivamente i media per costruire consapevolezza e responsabilità. Per educare alla cittadinanza e per evitare "bulimia mediatica".
Già, perché l'obesità sempre più diffusa tra gli adolescenti rischia infatti di avere anche un suo risvolto sul piano dell'uso e abuso di alcuni media.
E si comincia perciò a parlare di dieta mediale. "Il punto nodale è la diversificazione dell'esperienza. Qualcosa di simile a un'alimentazione diversificata e bilanciata" dice Paola Milani. Compiti forse troppo grandi per famiglie anch'esse in piena trasformazione, tra quelle basate sul matrimonio, sulla convivenza e poi famiglie ricomposte, allargate o a doppia carriera.
Per non parlare di quello che gli americani chiamano over-parenting ovvero un eccesso di padri e madri in famiglia che – grazie all'innalzamento della vita media – trasforma nonni e bisnonni in "genitori aggiunti". Fenomeno che spesso genera una sorta di ipertrofia dell'attenzione e porta a limitare il percorso d'autonomia del bambino, compresa la sua creatività e disciplina.
Da dove ripartire perciò? "La genitorialità secondo Paola Milani dovrebbe essere socialmente diffusa. L'intera società deve realizzare un pensiero e una propensione educativa. Perché c'è genitorialità non solo nei genitori, ma anche nell'architetto che pensa le città e le case, nel negoziante che espone la merce ad altezza bambino, nel sindaco che ripensa gli orari della città, nell'amministratore che si preoccupa dei percorsi sicuri casa scuola". Una prospettiva che non intende deresponsabilizzare i genitori ma solo coadiuvarli, affinché l'educazione venga percepita come una questione aperta e in capo a tutta la società, e non come una missione da svolgere in solitudine dentro il perimetro di una casa o di un'aula.
Bibì Bellini