Il prossimo 25 aprile l’Italia celebra i 70 anni dalla Liberazione e dalla fine della seconda guerra mondiale. Una ricorrenza su cui ci è parso doveroso provare a riflettere perchè, proprio in una fase in cui fanatismi ideologici e religiosi si (ri)affacciano e lo spettro di conflitti danza ai confini dell’Europa e del Mediterraneo, la ricerca e la costruzione di una memoria comune appare fondamentale. Come base su cui definire la convivenza della nostra società, ma anche per saper affrontare le sfide del futuro, come paese e come Europa.
Su questi temi abbiamo sentito Guido Crainz, uno dei più importanti storici italiani, autore di diversi saggi sull’Italia contemporanea e docente all’Università di Teramo.
Cos’ha rappresentato nella storia italiana una vicenda come quella della lotta di Liberazione dopo il ventennio segnato dal regime fascista?
Ha aiutato il paese a interrogarsi su se stesso, sulla propria ragion d’essere. A guardarsi allo specchio, a capire che era possibile un futuro. A scegliere. A mettersi alla prova e a pagare di persona. “È la prima volta che mi accorgo di avere una Patria come qualcosa di mio, di affidato in parte anche a me”: lo annotava all’indomani del 25 luglio del 1943 Pietro Chiodi, professore di liceo ad Alba, in Piemonte. E Giacomo Ulivi, uno dei condannati a morte della Resistenza, scriveva ai suoi cari: “tutto noi dobbiamo rifare (…) ma soprattutto, vedete, noi dobbiamo rifare noi stessi”. In quella stessa lettera Ulivi aggiungeva: l’inganno peggiore di una “diseducazione ventennale” è stato quello di convincerci della “sporcizia” della politica e di intaccare così “la posizione morale, la mentalità di molti di noi. Credetemi: la cosa pubblica è noi stessi (…), la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo, ogni sua sciagura è sciagura nostra”. Ancora una volta, a settant’anni di distanza, dobbiamo ripartire da qui.
Qual è il valore e il senso del patto tra forze di diversa ispirazione politica e culturale che ha consentito di dar vita alla nostra Costituzione?
Il primo valore è il patto stesso: l’idea che fosse necessario costruire la “casa comune”: con “ascolto reciproco, paziente ricerca di punti di incontro e di soluzioni condivisibili, spirito di moderazione e senso della missione”. Sono le parole pronunciate da Giorgio Napolitano nel 2008, nel sessantesimo anniversario della promulgazione della Carta, e a quel “senso della missione” diedero fondamento i valori e i principi che informano i suoi primi articoli. Un “miracolo della ragione”, come ebbe a dire Piero Calamandrei.
In che misura l’esperienza della Resistenza e i valori espressi dalla Costituzione sono (o non sono) diventati davvero un fondamento condiviso per la società italiana e perché?
Passi avanti in quella direzione sono stati certo fatti ma si legga il secondo capoverso dell’articolo 3: “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. È difficile dire che sia stato realizzato per intero, ma in realtà tutta la storia della Repubblica è stata segnata dall’impegno a concretizzare i principi fondamentali fissati allora, disattesi a lungo. Si pensi alla parità fra uomo e donna: occorre attendere il 1963 perché le donne possano accedere alla magistratura, e addirittura il 1975 per un diritto di famiglia che dia pari dignità ai due coniugi. Si pensi anche al lungo permanere di norme e codici fascisti incompatibili con la Costituzione: iniziarono ad essere aboliti – e con molta lentezza – solo a partire dal 1956, quando entrò finalmente in funzione la Corte Costituzionale. Non è stata né automatica né scontata l’educazione alla democrazia, ma su quella via ci si è incamminati davvero, allora.
In una fase storica come quella attuale in cui la negazione dei più elementari diritti umani, la violenza fanatica e gli scenari di conflitto, ce li siamo trovati molto più vicini di quanto non pensassimo, lei ritiene che l’Italia e l’Europa dimostrino di avere adeguatamente presente la lezione su quel che è accaduto nel XX° secolo?
All’indomani della seconda guerra mondiale l’idea stessa di Europa nacque dalla “lezione” dei drammi e dei crimini di massa della prima metà del secolo: dall’esigenza di non ripetere gli errori del primo dopoguerra, dalla necessità di includere anche le nazioni sconfitte – la Germania e l’Italia – nella costruzione di un futuro comune. E dall’“obbligo” assoluto di una rifondazione radicale del modo di essere delle nazioni e delle culture. Abbiamo riscoperto troppo spesso la necessità di quei valori: nella stessa Europa – si pensi solo alle guerre che hanno lacerato la ex Jugoslavia- e in ogni parte del mondo.
In un mondo “veloce” e tecnologico come quello attuale, come convincerebbe i ragazzi e le generazioni più giovani sul “dovere della memoria” e sull’utilità della storia come attrezzo fondamentale per guardare al futuro?
È l’obiettivo che mi ha guidato in tanti anni di insegnamento, e mi hanno aiutato molto le “immagini” del passato e al tempo stesso il racconto di esso che ci è giunto grazie alla letteratura, l’arte, il cinema. Per la verità non parlerei tanto di “dovere” quanto di fascino della memoria: la scoperta continua di quella ricchissima miniera che è il passato. E ho sempre cercato di far capire agli studenti che il passato è reale come il presente e incerto come il futuro: cioè che non vi sono mai risposte e strade già costruite ma che al centro di ogni cosa vi sono le scelte consapevoli di donne e di uomini. Così come è stato nei mesi e nei giorni della Resistenza.