L’Italia non è un paese per donne. L’emergenza Covid-19 lo ha sottolineato come un evidenziatore, facendo emergere elementi di difficoltà e di diseguaglianza già presenti nella società, ma ora tanto più esasperati. L’isolamento sociale ha chiuso le donne in casa, costringendole a barcamenarsi tra smart working, istruzione dei figli, cura della famiglia e lavori domestici: il 60% delle donne italiane – dice un’indagine Ipsos commissionata da WeWorld – ha fatto tutto da sola, senza aiuti. Una percentuale che si impenna fino al 93% al sud e nelle isole. E poi c’erano quelle – tante, più degli uomini – che hanno continuato a lavorare offline, in prima linea, nei settori essenziali tutti a prevalenza femminile come sanità e servizi sociali, ma anche commesse di supermercati e attività di pulizia (donne che poi una volta a casa, ovviamente, non erano esentate dal curarsi del mènage domestico). Così è successo che nella fascia d’età 20-50 le diagnosi di Covid tra le donne sono state di 10 punti superiori rispetto agli uomini, perché proprio in questa fascia d’età le donne sono state più esposte al rischio.
Ma d’altro canto le donne sono anche le più presenti nei settori cosiddetti non essenziali che durante il coronavirus hanno subito la chiusura totale: ovvero turismo e ristorazione dove è femminile l’84% della forza lavoro. Ciò significa – e significherà – posto di lavoro a rischio, diminuzione drastica del reddito personale e per molte perdita dell’indipendenza economica. Una catastrofe non solo individuale ma anche dell’intera società perché l’indipendenza economica delle donne è la più importante garanzia di libertà e di sviluppo sociale. E pensare che il 60% dei laureati nel nostro paese sono donne. Un patrimonio umano che il nostro paese disperde di generazione in generazione.
La situazione pre-Covid del mercato del lavoro femminile è già drammatica: in Italia lavora meno di una donna su due (49%). Peggio di noi, in Europa, solo Montenegro, Turchia, Macedonia e Grecia. Poi è arrivato l’effetto lockdown con tantissimi posti di lavoro persi. In Italia ci sono 484 mila persone in meno che cercano lavoro (-23,9%) rispetto a marzo. E la maggioranza di queste persone sfiduciate e convinte di non poterla più trovare, un’occupazione, ovviamente è femminile: -30,6%, pari a -305 mila unità rispetto agli uomini (-17,4%, pari a -179 mila). Se e quando lavorano, comunque, le donne, lavorano nei settori meno remunerati: tipo turismo, comunicazione, commercio, lavoro di cura sanitario.
La carenza di donne nei settori scientifici e tecnologici, tra i più richiesti del futuro e tra i meglio pagati è una vera emergenza, vista l’importanza dell’economia digitale nel futuro. E i posti da dirigente? Le donne ai livelli più alti della carriera sono pochissime, il 30%. Quindi bassi livelli dirigenziali, bassi livelli di stipendio.
In uno studio condotto da Tiziana Ferrario e Paola Profeta per l’Istituto Toniolo (vedi anche questa intervista) dal titolo: “Covid: un paese in bilico tra rischi e opportunità”, viene sottolineato che nelle famiglie italiane «le donne si fanno carico della maggior parte del lavoro domestico e di cura, visto che per il 74% di loro non c’è nessuna condivisione con il partner. Il lockdown per il Covid rischia di aggravare il peso della casa e della famiglia sulle donne ma può essere anche un’opportunità per modificare gli equilibri dominanti».
Ma ci vorrebbero misure rivoluzionarie, la cui necessità è sempre più improrogabile, per far sì che questa sia più di una speranza. Scrivono le due curatrici: «Ripensiamo orari e modelli dominanti nel mondo del lavoro. Approfittiamo della necessità di rivedere la vecchia organizzazione e mettiamone in campo una nuova più funzionale non solo alla produttività delle imprese ma anche alle famiglie. Rivediamo politiche pubbliche e sociali offrendo servizi necessari in una economia avanzata che attiva le donne e non scaricando su di queste tutto il peso della gestione familiare. Servono più asili nido a prezzo sostenibile, più servizi per l’infanzia, congedi obbligatori e prolungati per i padri che contribuiscano a redistribuire gli oneri e a riequilibrare i costi del lavoro tra i generi».
Il Family Act di recente varato dal governo parrebbe andare in questa direzione: tra le misure principali a sostegno della famiglia, istituisce l’assegno universale per figli. Tra gli altri punti fondamentali il contributo per le rette di nidi e materne anche al 100%, il congedo per i neo papà che sale a dieci giorni, congedi usati anche per andare a parlare con i professori, e un’indennità integrativa per le mamme in rientro da congedo.
Ma oltre al cambio delle leggi, occorre un cambio di mentalità. Sempre secondo l’indagine Ipsos commissionata da WeWorld a fronte di un 71% di donne occupate che ha dichiarato di essersi sobbarcata tutto da sola (dalla cura di casa ai compiti dei figli, dall’assistenza agli anziani al gioco dei più piccoli), corrisponde un 47% di uomini che ha dichiarato di essersi preso cura dei figli tanto quanto le compagne mentre, rispondendo alla stessa domanda, solo il 22% delle donne ha percepito di aver avuto collaborazione da parte del partner.
Anche la Società degli economisti ha lanciato un grido d’allarme. In una lettera spedita alla ministra Paola Pisano, il presidente Alberto Zazzaro ricorda che i ruoli diseguali nella distribuzione del lavoro di cura e domestico (i dati Ocse mostrano che le donne italiane lavorano 1 ora e mezzo al giorno in più degli uomini se si somma lavoro pagato e lavoro non pagato): «Ma è molto probabile che le misure di contenimento del Covid 19 comportino un ulteriore aggravio del carico di lavoro delle donne con potenziali conseguenze negative di lungo periodo sull’occupazione femminile e sui divari salariali di genere». In altre parole, gli effetti della crisi rischiano di provocare un arretramento dell’indipendenza economica delle italiane e un’accentuazione del divario domestico: del resto, se mancano i servizi, se manca la scuola, se manca il welfare, chi starà a casa a curarsi della prole o dei genitori anziani se è la donna quella con uno stipendio più basso o con un posto di lavoro precario? L’Onu del resto ha da poco pubblicato un report intitolato “L’impatto del Covid 19 sulle donne”, dal quale emerge che in tutto il mondo le donne hanno forme contrattuali più precarie. E dunque saranno le prime a essere spazzate via dalla recessione. Secondo una ricerca McKinsey sarebbe a rischio, nella fase post-Covid, il 26% dei dipendenti. A uscire peggio da questo periodo nero saranno le persone senza laurea, dipendenti e professionisti con contratti precari, meno tutele e bassi guadagni. E a livello globale, in effetti, il divario di genere nelle retribuzioni si attesta al 16%, in molti contesti arriva al 35% e oltre.
Sia la precarietà, che il divario salariale, che il basso tasso di occupazione sono il risultato di quella che viene chiamata – nello studio di Ferrario e Soprano – la discriminazione statistica. Ovvero: proprio a causa dello sbilanciamento del lavoro di cura, le imprese preferiscono l’assunzione e la promozione degli uomini. Chi affiderebbe un ruolo importante, in azienda, a una donna che si deve assentare per problemi in famiglia, che arriva al lavoro stanca, che scappa senza aspettare che finisca la riunione perché c’è da prendere il bambino a scuola? Non è un caso che in Italia il gap tra uomini e donne in possesso di un conto corrente sia del 4,5% a favore degli uomini. In quasi tutti i paesi europei il gap è pressoché inesistente o addirittura a favore delle donne. Sottolinea lo studio che l’intera popolazione italiana ha scarse conoscenze finanziarie; ma anche qui il divario di genere è molto significativo. Il 53,9% degli uomini contro il 63,4% delle donne non partecipa mai a una discussione economica.
Ma a chi giova questa drammatica disparità di genere? Agli uomini, verrebbe da rispondere, che si trovano la cameriera in casa (gratis) e nessuna o scarsa competizione con le donne nella corsa ai posti migliori e più retribuiti del mercato del lavoro. Eppure non è così: senza le donne ci perde l’intera società. Anzi: per risollevare il Paese e riprendere un percorso di crescita le donne sono una risorsa chiave su cui contare. «Secondo le stime del fondo monetario internazionale – si legge nello studio – l’aumento dell’occupazione femminile fino a raggiungere quella maschile comporterebbe per l’Italia un aumento del Pil dell’11%. Infatti, il lavoro delle donne è motore di crescita economica: le donne sono competenti, istruite, e hanno talenti pari a quelli degli uomini. Non solo: il lavoro delle donne potrebbe innescare un circolo virtuoso di crescita: aumenterebbe la domanda di servizi, aumenterebbe i consumi, già largamenti guidati dalle donne. Insomma – si conclude – investire sul lavoro femminile conviene all’economia soprattutto per un paese come il nostro che cresce poco».