Attualità

Il Pil non misura la felicità

indice_felicit.jpgNella speranza di essere davvero alla fine del lungo tunnel, è il momento di capire se la crisi economica e finanziaria, oltre a ridurre fortemente i redditi – e su questo siamo tutti d’accordo – ha intaccato anche il livello di felicità dei popoli. E se sì, in quale misura e secondo quali dinamiche.

La risposta a questi interrogativi sta in un documento dell’Onu, il World Happiness Report, la cui terza edizione è di quest’anno. Il Rapporto planetario sulla felicità si può leggere in vari modi ma non lascia dubbi sul fatto che sì, otto anni di crisi hanno corroso il Pil (cioè il prodotto interno lordo) ma anche il Fil (la felicità interna lorda) e altri misuratori alternativi del benessere fondati sulla qualità della vita, moltiplicatisi dal Duemila ad oggi per uscire dalla cosiddetta “dittatura del Pil”, un indice vecchio degli anni Trenta ma a tutt’oggi preminente e duro a morire. Riorientare le politiche e i modelli di sviluppo abbandonando questo numerino oggi (ma anche ieri) inadeguato a rappresentare il vero benessere di una collettività, è una priorità che esce rafforzata scorrendo le classifiche della felicità.

Nel terzo Rapporto, firmato dagli economisti Jeffrey Sachs, John Helliwell e Richard Layard (il prossimo sarà presentato a Roma) non c’è, in sostanza, una sovrapposizione né un legame di causa effetto tra la felicità da una parte, e la ricchezza economica dall’altra. Punti di contatto però ve ne sono e da questi partiamo per riflettere, aiutati dal professor Leonardo Becchetti, docente di economia politica all’Università Tor Vergata di Roma: è tra gli studiosi italiani, con Stefano Zamagni e Luigino Bruni, che hanno partecipato alla stesura del rapporto che ha attinto alla famosa banca dati Gallup.

Lo stock di capitale sociale Cominciamo analizzando i 125 paesi su cui è possibile un confronto tra il periodo pre-crisi 2005-2007 e il triennio 2012- 2014 al centro del World Happiness Report. Di questi il maggior numero, 53, hanno registrato “significativi incrementi” nella felicità dichiarata dai propri abitanti, 41 “rilevanti decrementi”, mentre i restanti 26 paesi “non hanno mostrato significativi cambiamenti”.

“I tre quarti delle differenze tra le 125 nazioni si giocano su sei variabili – spiega Jeffrey Sachs, economista consigliere dell’Onu per la sostenibilità – che sono: sostegno sociale, reddito pro capite, speranza di vita, fiducia, libertà nel prendere decisioni, generosità. Tra queste le prime tre sono le più importanti”.

Apriamo qui una piccola parentesi per dire che la griglia degli indicatori della felicità è costruita un po’ come si fa per la soddisfazione del consumatore, su basi cognitive, incrociando più elementi tra loro. Oltre al reddito, ad avere un peso rilevante, anzi decisivo è lo stock di “capitale sociale”. Sono quei fattori – spiega Leonardo Becchetti – collegati alla qualità della vita di relazione, alla voglia di cooperazione, alla fiducia nelle classi dirigenti, alla vicinanza tra cittadini e istituzioni che emergono con forza in questo studio interdisciplinare al quale hanno lavorato economisti, psicologi, statistici, esperti ambientali, di sanità, ordine pubblico, ecc. “Il filo comune – si legge nel documento finale – di tutte le misurazioni del benessere individuali e collettive, è che sono fortemente influenzate dalla qualità del contesto sociale, normativo e istituzionale”.

L’economista romano di matrice cattolica sottolinea in modo particolare “la vicinanza del cittadino alle istituzioni come uno dei motivi chiave della felicità”. Non a caso i paesi piccoli o medio-piccoli compaiono ai primissimi posti.

La classifica della happiness vede primeggiare la Svizzera, a un tiro di schioppo dai nostri confini, ma con un grado ben diverso di fiducia e soddisfazione nel presente e in chi lo governa. A seguire un plotone di paesi nordeuropei anch’essi fuori dalla depressa Eurozona (nell’ordine: Islanda, Danimarca, Norvegia, Finlandia, Olanda e Svezia, con l’unico inserimento del Canada al quinto posto). La Germania è solo 26a, la Francia 29a. L’Italia fa un tonfo al 50° posto.

Colpisce il fatto che la stessa crisi economica non abbia, tuttavia, inciso sulla felicità dell’Islanda, addirittura seconda assoluta dopo essersi rialzata dal tracollo finanziario (per inciso, ha ritirato la domanda di annessione alla Ue) e dell’Irlanda, 18a e membro dell’Unione. Paesi che hanno saputo ricompattarsi, rispondendo con la coesione sociale alle avversità incontrate.

In coda al gruppo dei 158, invece, ci sono aree in guerra che si sfaldano come la Siria e piccoli stati africani, come Togo e Burundi, che non sono riusciti a scalare posizioni al pari di molti altri stati africani e soprattutto sudamericani che si stanno lentamente affrancando dalla fame.

L’Italia precipita: è terz’ultima! Parlando di felicità, i raffronti tra paesi sono in realtà difficili da fare: ci sono problemi metodologici legati alla cultura, alla lingua, alla interpretazione dei dati. “Più interessante è confrontare le variazioni di felicità nel tempo”, invita a fare Becchetti.

Qui c’è da sottolineare che i peggiori risultati relativi, rispetto al treinnio pre-2008, li totalizzano stati come la Grecia, l’Egitto e l’Italia che escono tra i più malconci dalla crisi (ammesso che ci escano). Quella italiana è la terza peggiore performance (-0,8 su una scala di 10) nel periodo della recessione, non troppo distante da quella greca (-1,5). Poco meglio fa la Spagna (-0,7). Graffia meno anche la tigre d’Oriente, l’India (-0,5) e indietreggiano pure gli Stati Uniti (-0,2). Le sole grandi che avanzano fino a raggiungere le parti alte della classifica sono la Russia, 20a (+0,5) e la Cina, 27a (+0,4). Il podio è uno affare insolito tra ri-emergenti: il Nicaragua, lo Zimbabwe e l’Ecuador.

A fare la felicità dei popoli è, dunque, a livello paese, oltre al reddito pro capite il senso di collettività, la capacità di reagire alle difficoltà, la fiducia nelle istituzioni, il controllo della corruzione. Inoltre una buona rete di welfare e opportunità di crescita e sviluppo. È il cosiddetto capitale sociale, quello che, nella propria “courtyard” (come direbbero gli inglesi), fa sì che le regole stradali siano rispettate anche in assenza di vigili e che non si getti la carta per terra. “È qualcosa che viene ereditato ma che non è immutabile” precisa Becchetti. “Dev’essere sempre alimentato per poter continuare a produrre effetti”.

Un’economia civile a quattro mani La sua ricetta è quella di un’eco-nomia civile a quattro mani, “dove l’azione del mercato e delle istituzioni è integrata da quella dei cittadini responsabili che fanno cittadinanza attiva e votano col portafoglio, nonché delle imprese pioniere che diventano multi-stakeholder creando valore economico in modo sostenibile e ripartendolo in modo più equo tra i diversi portatori d’interesse”.

Becchetti si riferisce alle imprese sociali, alle imprese cooperative, alle aziende low profit e ad alta intensità di lavoro, che sono in grado di promuovere l’inclusione e contribuire alla creazione di capitale sociale. Per lottare contro la dittatura del Pil e del “business as usual“, il fare affari malgrado tutto. C’è un movimento di opinione che sta crescendo in questo senso. “Il 20% dei fondi di investimento votano già col portafogli – quantifica il professore – cioè guardando alla responsabilità sociale, e il 15% dei prodotti venduti hanno una connotazione etica, sono biologici, equosolidali, ecc.”

Il Pil, tuttavia, che si muove ad ogni transazione che sia buona o cattiva, dev’essere ancora spodestato. Era il lontano 1968 quando Robert Kennedy diceva che, “in breve, misura tutto, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”.

 

 

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