“Non c’è mai stato così tanto cibo. Allora perché nel mondo 842 milioni di persone soffrono la fame? In termini strettamente quantitativi, c’è cibo a sufficienza per sfamare l’intera popolazione mondiale di oltre 7 miliardi di persone. Eppure, una persona su 8 è affamata. Nei paesi in via di sviluppo un bambino su 3 è sottopeso”.
A sancire queste semplici verità è il World Food Programme, l’agenzia delle Nazioni unite il cui scopo è proprio quello di combattere la fame e attivare piani di contrasto a questo drammatico problema. Nel provare a fare un ragionamento sul tema del cibo, siamo partiti da questa semplice affermazione perché già in essa sono contenuti due punti fermi: ovvero che al mondo c’è (o meglio ci sarebbe) cibo a sufficienza per tutti, ma dall’altra parte ci sono 842 milioni di persone che soffrono la fame.
Perché ci muoviamo tra queste due opposte verità? È quello che, nel nostro piccolo, vorremmo provare a capire, per avviare una riflessione che si proietta verso l’Expo 2015 che si terrà a Milano, una manifestazione che è proprio dedicata al tema “Nutrire il pianeta”.
Intanto chiariamo che il cibo sarebbe sufficiente per tutti, se tutti avessimo diete uguali o simili, come apporto calorico. Invece nei paesi occidentali sono comuni diete che sfiorano le 5.000 calorie al giorno, mentre dove si soffre la fame si vive sistematicamente al di sotto delle 2.000, confrontandosi quindi con le conseguenze che ne derivano. Si viaggia così sempre tra poli opposti: i tanti che non hanno cibo da una parte e, dall’altra, più di un miliardo di persone che soffre di problemi legati al sovrappeso e all’obesità (fattori scatenanti di malattie la cui cura diventa un costo enorme per i sistemi sanitari). Ovviamente non è che un cambiamento di dieta dove si mangia troppo, basterà a far arrivare il cibo dove manca, perché le distorsioni e problemi sono ben più complessi.
Cereali, carne, pesce…
Ma torniamo a guardare più da vicino a qualche dato sull’agricoltura mondiale. Oggi il cibo per il pianeta è rappresentato da 2 miliardi e 400 milioni di tonnellate di cereali (grano, mais, riso, ecc.) prodotti annualmente; poi si aggiungono, tra le voci principali, più di 300 milioni di tonnellate di carne, 780 milioni di latticini e 160 milioni di pesce, 500 milioni di semi oleosi, 180 milioni di zucchero. Questa è la “montagna” che sarebbe sufficiente per una alimentazione adeguata di tutto il pianeta.
Stiamo sulla voce più importante, quella dei cereali, per scoprire che la produzione complessiva, secondo i dati costantemente aggiornati della Fao (l’agenzia Onu che si occupa di cibo e agricoltura), è cresciuta in modo abbastanza regolare negli ultimi 5 anni, così come sono aumentate le scorte (che i paesi devono avere per fronteggiare le emergenze). Dunque una situazione relativamente tranquilla, rispetto a periodi recenti molto turbolenti sia per le quantità disponibili che per gli andamenti dei prezzi.
Ma è molto interessante andare a verificare come è ripartita questa enorme quantità di cereali. Infatti, secondo la Fao, dei 2 miliardi e 400 milioni di tonnellate, meno del 50% serve direttamente all’alimentazione umana (per l’esattezza sono 1.080 milioni). Poi ci sono 796 milioni di tonnellate che servono a produrre gli alimenti per gli animali (da cui comunque derivano i 300 milioni di tonnellate di carne che l’uomo mangerà).
Non producono invece nessun tipo di alimento gli altri 450 milioni di tonnellate che servono prevalentemente alla produzione dei biocarburanti, un fenomeno questo che ha avuto una rapida espansione negli ultimi anni.
Già da questa macro osservazione cominciano ad emergere diversi problemi che vanno a incidere sul punto di fondo che è come garantire a tutti il cibo. Già perché è bene ricordare che parlare di diritto al cibo non è una enunciazione astratta. Il diritto al cibo è un diritto intrinseco di ogni uomo, donna o bambino ed è stato riconosciuto come tale dalla Dichiarazione universale dei diritti umani nel 1948. Un diritto sancito anche se poi spesso dimenticato nella pratica di questi decenni.
Il cibo è solo una merce?
Un esempio viene da quanto accaduto dagli anni ’80 del secolo scorso, quando il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale, ai paesi poveri e pieni di debiti che chiedevano aiuti, hanno imposto riforme orientate a favorire liberalizzazioni, privatizzazioni e un ridimensionamento dell’intervento pubblico in tutti i campi e quindi anche in agricoltura. Risultato di questo è stato che questi paesi poveri sono diventati prima esportatori di materie prime (destinate a chi aveva i soldi per comprarle), ma soprattutto sono diventati importatori di cibo prodotto e confezionato altrove (in una logica di mercato che certo non ha aiutato i più poveri).
“Uno dei punti centrali nel dibattito rivolto al futuro – spiega Luca Colombo, autore del libro “Diritto al cibo” e segretario della Fondazione per la ricerca in agricoltura biologica e biodinamica – è la sfida a considerare il miglior uso possibile della terra, massimizzando l’uso sociale del cibo come pilastro fondamentale su cui costruire la sopravvivenza degli uomini, anziché considerare semplicemente il cibo una merce da scambiare”.
2050, saremo 9 miliardi
Se di temi comunque importanti come il rapporto tra agricoltura e ambiente, e dei modelli di consumo e degli sprechi che si incontrano lungo tutta la filiera parliamo nelle schede in queste pagine, resta poi un tema di prospettiva.
Se come abbiamo visto in partenza, al netto dei problemi che abbiamo provato almeno ad accennare, oggi la quantità di cibo prodotto sarebbe sufficiente a nutrire i 7 miliardi di individui che abitano il nostro pianeta, quale sarà la situazione quando, nel 2050, a chiedere cibo saremo in più di 9 miliardi? E come cambierà questa domanda anche alla luce del fatto che almeno l’aspirazione a potersi avvicinare ai livelli di consumo dell’Occidente, da parte dei paesi in via di sviluppo (basta citare solo Cina e India che insieme fanno 2 miliardi e 500 milioni di persone) sta producendo già oggi impatti rilevantissimi? Poi c’è il terzo fattore che abbiamo citato che è quello della sostenibilità ambientale. Cosa succederà rispetto al problema del surriscaldamento del pianeta? Che impatti avrà sulla disponibilità dei terreni coltivabili?
Certo nel provare a rispondere a questi enormi quesiti l’umanità potrà contare su evoluzioni tecnologiche e scientifiche che troveranno applicazione anche nella produzione di cibo e alimenti. Il tema degli Ogm (gli Organismi geneticamente modificati) è da tempo al centro dell’attenzione e suscita posizioni decisamente contrastanti. Ma altre prospettive si aprono, legate ai cibi biotech, o alla possibilità di modificare le nostre diete, trovando le proteine necessarie magari negli insetti o nei crostacei, anziché nella carne (questi sono tutti aspetti cui dedicheremo approfondimenti nei prossimi numeri della nostra rivista).
I limiti dello sviluppo
Resta però il fatto che comunque le strategie future devono confrontarsi con un concetto di limite che è oggettivo. Sono passati più di 40 anni da quando il Club di Roma pose per la prima volta l’attenzione sul fatto che le risorse del pianeta non sono infinite e dunque l’idea che si possa continuare a crescere con una progressione geometrica non è una ipotesi realistica. Anzi, le elaborazioni più recenti e aggiornate delle analisi del Club di Roma, non escludono scenari catastrofici rispetto alla futura situazione alimentare del pianeta.
Non a caso anche a livello politico, i vertici del G20 (i paesi più sviluppati) hanno messo all’ordine del giorno il tema senza però assumere impegni precisi. Ma, consapevoli delle crisi legate anche al ruolo della speculazione finanziaria, i governi sanno che sul cibo si possono scatenare aspri conflitti.
È in questo quadro che va quindi definito il nodo sul modello di agricoltura che si vorrà sviluppare e sostenere. In questi ultimi decenni l’agricoltura intensiva ha prodotto risultati importanti, grazie all’evoluzione tecnica e tecnologica. Come ha spiegato il direttore generale della Fao, Jos Graziano da Silva “il modello “della cosiddetta Rivoluzione Verde degli anni ’50 e ’60 ha sì fatto raddoppiare la produzione alimentare mondiale grazie all’applicazione della conoscenza scientifica all’agricoltura, ma “si basava su un notevole impiego di fattori produttivi come acqua, fertilizzanti e pesticidi”.
La nuova strategia Fao
Per questo ora la Fao ha lanciato una nuova strategia che va sotto il titolo di “Save and grow” (cioè “Salvare e crescere”). Questo perché “l’attuale paradigma di produzione intensiva non riesce più a stare al passo con le sfide poste dal nuovo millennio. Per crescere l’agricoltura deve ora imparare a preservare”. Così il nuovo approccio, che punta a “produrre di più con meno”, si rivolge soprattutto ai piccoli contadini dei paesi in via di sviluppo. Aiutare le famiglie rurali a basso reddito – circa 2,5 miliardi di persone – ad economizzare sui costi di produzione e costruire prosperi sistemi agro-alimentari, li metterà nelle condizioni di massimizzare le rese ed investire i risparmi nella salute e nella scolarizzazione. Come questa agricoltura su scala più ridotta, dove la proprietà è diffusa e legata al territorio si incrocerà con la presenza delle grandi multinazionali del settore (basta pensare alla Cargill che fattura 120 miliardi di dollari commerciando in cereali, semi oleosi e alimenti, o ai colossi del biotech come Monsanto, Basf e Syngenta), è tutto da scoprire. Gli interessi in gioco son ovviamente enormi.
Forse noi consumatori italiani, ci potremmo sentire lontani da queste riflessioni e da questi scenari. Già anche solo capire le problematiche dell’agricoltura nella dimensione europea è piuttosto difficile. Ma come abbiamo visto le interconnessioni e le ricadute di ogni scelta sono globali. Il punto centrale per una agricoltura come quella italiana, il cui cuore sono tanti prodotti e cibi di qualità, conosciuti e apprezzati in tutto il mondo, è con che idea di se stessa vuole essere protagonista nel futuro.