Attualità

“I nostri giovani, i più danneggiati dalla pandemia”

Sul tema del calo demografico, abbiamo intervistato il professore di demografia e statistica sociale all’Università Cattolica di Milano Alessandro Rosina.

Professore, cosa può dirci dell’impatto della pandemia sui progetti di vita dei giovani?
I giovani italiani tra i 18 e i 34 anni sono i più preoccupati per l’impatto della pandemia sul loro futuro: oltre il 60% vede i propri progetti di vita a rischio, più le donne (67%) che gli uomini (55%). E il 36,5% di coloro che avevano intenzione di concepire un figlio entro l’anno ha finito per accantonare l’idea a causa del coronavirus. A dircelo è una fresca indagine dell’istituto Toniolo, realizzata all’apice del lockdown assieme al ministero per le Pari opportunità e la famiglia. La ricerca ha confrontato i ventenni e trentenni francesi, spagnoli, inglesi e tedeschi con i nostri. Gli italiani, più di tutti, temono che l’emergenza sanitaria li porti non a congelare, ma a rinviare sine die o a cancellare progetti importanti come la conquista dell’autonomia, la formazione di una famiglia, la scelta di un figlio. Questo va ad inserirsi in una realtà già difficile. I nostri ragazzi infatti sono quelli che vivono più a lungo in casa con i genitori, che hanno maggiori problemi d’inserimento nel mondo lavorativo, che fin oltre i 30 anni non studiano e non lavorano, che non godono di una continuità di reddito per cui continuano a dipendere dai genitori. La pandemia li ha colpiti maggiormente proprio per la loro vulnerabilità e il clima di sfiducia che respirano. Molti intorno ai 20 anni, cioè all’ingresso nella vita adulta, avevano già incrociato un’altra crisi pesante, la recessione economica del 2008-2013. Da allora si sono acuite le distanze rispetto alla condizione media dei coetanei europei. E loro non capiscono il perché. Il divario è forte soprattutto con la Germania, con la quale c’è uno scarto che supera i 20 punti percentuali. I giovani tedeschi sono i più ottimisti sulla possibilità di lasciare pressoché immutati o solo posticipare i propri piani di vita. Non a caso prima della pandemia molti nostri giovani migravano nel Nord Italia e poi all’estero, con maggiore destinazione la Germania.

La Germania che fino a 10-15 anni fa aveva una denatalità come la nostra e oggi ha indici di fecondità assai più alti. Qual è il suo segreto? Per invertire il trend della denatalità servono politiche per la famiglia che spazino dai servizi all’infanzia ai tempi di conciliazione con il lavoro, e che devono essere soprattutto solide e continuative nel tempo, Serve cioè creare precisi strumenti su cui le famiglie sanno di poter contare al di là dei governi e delle contingenze. L’esempio della Germania, che da 1,3 è cresciuta a 1,6 figli per coppia in pochi anni, ci fa capire che anche chi è caduto molto in basso può recuperare grazie a politiche attive efficaci, che tra l’altro vanno continuamente rimesse in discussione e adeguate ai cambiamenti del mondo del lavoro e ai fabbisogni delle famiglie giovani. Serve dimostrare un’attenzione continua nei loro confronti in modo che percepiscano che il paese investe su di di loro. Avere figli oggi non è più una scelta scontata, viene fatta solo da chi trova un terreno fertile e un clima di fiducia intorno a sé, altrimenti rimane una scelta minoritaria di quei pochi che sono fortemente convinti o dei gruppi sociali più benestanti.

Sulla diminuzione delle nascite incide anche un fattore culturale? C’è una peculiarità tutta italiana in questo senso? Sì, da noi è radicata l’idea che i figli siano un costo privato più che un valore sociale condiviso. Chi non ha figli non capisce nemmeno perché investire su chi ne ha. A livello collettivo siamo quelli che investono meno sulla risorsa famiglia. E poi c’è un altro dato: il valore principale che i genitori pensano di dover trasmettere ai propri figli non è, come nei paesi del nord Europa, quello di cavarsela da soli prima possibile. A un diciottenne che progetta la propria vita la società inglese o scandinava attribuiscono valore investendo in alloggi e politiche di reddito. Nei paesi mediterranei, invece, il focus è sull’importanza dell’aiuto reciproco, sulla solidarietà familiare: da noi l’affetto e la vicinanza emotiva sono estese a tutte le fasi della vita. Ne deriva che è più facile e “normale” che nei paesi del Nord ci sia il tempo pieno nelle scuole e che gli anziani vengano ospitati nelle case di riposo, mentre in Italia il welfare familiare compensa la carenza degli asili nido e i figli, che spesso abitano vicino ai genitori, si prendono cura dei genitori anziani dai quali sono stati a loro volta aiutati a trovare un lavoro. Il nostro paese si è organizzato su questo grande welfare informale risparmiando su asili, scuole, politiche di conciliazione lavoro-famiglia, e dando per scontato che i figli siano sempre un bene a carico. La combinazione tra il fattore culturale e la mancanza di politiche adeguate per la famiglia rende i giovani più fragili, più a lungo dipendenti e restii a reclamare ciò che negli altri paesi è un diritto già prima dei 25 anni: e cioè l’autonomia e l’autosufficienza, che sono alla base di una famiglia. È un meccanismo perverso che va ad alimentare le diseguaglianze, perché chi nasce in una famiglia giusta può raggiungere i suoi obiettivi, chi nasce in quella sbagliata no.

Che giudizio dà dell’assegno unico e universale e del Family act? È ottimista o pessimista sull’efficacia di queste misure integrate concepite sul modello tedesco? L’assegno unico familiare non è l’unica misura del Family act, che è un pacchetto di misure che prevede aiuti economici, un fisco favorevole nei confronti delle famiglie, ecc. Mi pare che sia stia dando il giusto segnale su come si possa scardinare il meccanismo dei figli come costo sociale e non come bene collettivo. Credo ci sia bisogno di un paese che riparta creando opportunità per le nuove generazioni e in questa chiave la green economy, che ha bisogno delle competenze dei più giovani, rappresenta una grande occasione. Vedremo se le scelte politiche saranno fatte fino in fondo aprendo una nuova fase di crescita con al centro non l’austerity, ma i giovani.

Tag: giovani, covid 19, calo demografico, denatalità

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