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Gli squilibri di un mondo in movimento: e l’Europa invecchia

Profughi.jpgQuali nuovi drammatici episodi interverranno nella vicenda dei migranti che cercano di raggiungere l’Europa? Secondo i dati dell’Alto commissariato per le nazioni unite (Unhcr) nel 2015 si è trattato di oltre 1 milione di persone (di cui ben 856 mila sbarcate in Grecia), contro le 216 mila del 2014.

Metà di loro sono siriani, un altro 21% viene dall’Afghanistan, un 9% dall’Iraq: dunque in larghissima parte gente che fugge da guerre e conflitti. Purtroppo, ormai da mesi, l’elenco di tragedie (con le migliaia di morti nei naufragi che si susseguono con cadenza quasi quotidiana nel Mediterraneo), si mescola alle paure crescenti e sempre più radicate che questo fenomeno migratorio determina in una parte consistente dell’opinione pubblica europea. Il tutto completato dall’incapacità dell’Unione europea di provare a dare una risposta collettiva al problema, mentre prevalgono sempre più le spinte dei singoli stati a chiudersi, a bloccare le frontiere o addirittura a rispedire a casa centinaia di migliaia di profughi.

Per una rivista come la nostra è difficile seguire la cronaca di questi eventi e dar conto di situazioni in costante evoluzione. Ma quel che ci pare utile (e anche doveroso) è provare a indagare un po’ più a fondo su alcune dinamiche legate ai fenomeni demografici, sociali ed economici che comunque non solo l’Europa, ma l’intera umanità deve affrontare.

Sì perché il primo punto che deve essere chiaro è che i conflitti da cui fuggono milioni di persone in questi anni, hanno funzionato da acceleratore di problemi migratori che comunque ci sarebbero e che sono destinati a durare per i prossimi decenni. Basti pensare che, secondo le stime delle Nazioni Unite, sull’insieme di persone che hanno lasciato il loro paese nel 2015, pur in questa fase segnata da numerosi e drammatici conflitti, ben il 60% lo ha fatto per motivi economici e non per fuggire da una guerra.

2050, sulla terra saremo 9,7 miliardi Se questa è la premessa occorre dunque guardare a cosa ci dice la demografia. Una certezza è che la popolazione complessiva sul pianeta è destinata ad aumentare, da qui al 2050 di circa 2 miliardi e mezzo di persone, passando dai 7,3 miliardi del 2015 a 9,7 a metà secolo (un risultato frutto comunque di una previsione di calo del tasso di fecondità dai 2,5 figli per donna di oggi ai 2,2 del 2050). E questa massa imponente di persone in più avrà bisogno di cibo, combustibili ed energia. Ma, come spiega nel suo libro “Il pianeta stretto” (Edizioni Il Mulino), uno dei più importanti demografi italiani, il professor Massimo Livi Bacci “il 98% di questo aumento di popolazione avverrà nei paesi in via di sviluppo” concentrandosi in particolare nell’area dell’Africa subsahariana e nel subcontinente indiano. Vediamo meglio la situazione africana (a noi più vicina perché è l’altra sponda del Mediterraneo), che vuol dire parlare di paesi come Nigeria, Sudan, Etiopia ma anche Egitto.

Il tasso di natalità attuale è qui mediamente di 5,1 figli per donna. Prevedendo che questo tasso al 2050 scenda a 3,1 la popolazione di quest’area passerebbe da 962 milioni di abitanti a 2 miliardi a 100 milioni. Se invece il tasso di natalità non calasse, allora i miliardi di abitanti diventerebbero quasi 3 (è importante notare che tra i migranti arrivati via mare in Italia nel 2015, il 26% veniva dall’Eritrea, il 14% dalla Nigeria, l’8% dalla Somalia).

A fronte di questo incremento demografico nel sud del mondo (che anche nei paesi in via di sviluppo riguarderà soprattutto le fasce più povere della popolazione), si contrappone un andamento demografico discendente in Europa, Cina e Giappone. Dei dati italiani (record negativo con 1,37 figli per donna) parliamo a parte, ma il fenomeno non riguarda solo noi. I dati che, ad esempio, mettono a raffronto Germania e Nigeria dicono impietosamente che i tedeschi da 80,7 milioni nel 2015, nel 2050 saranno 71,9 milioni, mentre nello stesso periodo i nigeriani da 182 milioni diventeranno 509, con l’aggiunta del fatto che circa il 40% dei tedeschi avrà più di 60 anni, contro un 81% di nigeriani che avrà meno di 39 anni.

È chiaro che davanti a queste cifre, anche i pur drammatici fenomeni di questi mesi, dimostrano che, se 1 “solo” milione di migranti ha messo in crisi l’Europa nel 2015, quel che potrà avvenire in futuro (a prescindere da ulteriori conflitti che possono solo peggiorare le cose) ha dimensioni ben più consistenti.

La sfida della sostenibilità Altro aspetto che dovrebbe essere al centro dell’attenzione, per capire le sfide che l’umanità ha di fronte, riguarda l’impatto che l’aumento della popolazione produce. Usiamo sempre le parole del professor Livi Bacci: “Dal 1800 ad oggi la popolazione sulla terra è cresciuta di 7 volte, passando da 1  a 7 miliardi, ma ogni individuo oggi vive un numero di anni doppio rispetto al 1800 e ha a disposizione un reddito reale di 10 volte superiore”. L’insieme di questi fattori porta a calcolare che l’impatto dell’umanità sul pianeta è oggi 140 volte superiore all’inizio dell’800.

È vero che c’è stata ed è tuttora in corso un’evoluzione tecnologica straordinaria che promette di riservare ulteriori e importanti sorprese, così com’è vero che la resa delle produzioni agricole è migliorata notevolmente, ma la sfida resta assai impegnativa. Altro trend che le previsioni socio-demografiche ci consegnano è quello della progressiva crescita delle megalopoli e dell’abbandono delle campagne. Ormai la popolazione urbana (nel 2014 arrivata al 53% del totale) ha superato quella rurale. Le “megacittà” (cioè oltre i 10 milioni di abitanti) erano 10 nel 1990 e sono diventate 28 nel 2014, le città tra 5 a 10 milioni da 21 sono diventate 43, mentre quelle da 1 a 5 milioni sono passate da 239 a 415. Non aggiungiamo altri dati, perché è evidente a tutti come il modello delle megalopoli proponga problematiche di impatto (consumi di energia, trasporti, infrastrutture di servizio) molto consistenti. E dunque operare scelte razionali, eque da un punto di vista sociale e sostenibili da quello ambientale è una sfida enorme. 

Per questo si profilano comunque due nodi fondamentali. Uno è di riuscire a intervenire sui tassi di natalità (ricordiamo che due figli per donna significa una popolazione stabile), in alcuni casi per alzarli, in altri per abbassarli. Sotto a quota due sono paesi come Cina (1,6) e Brasile (1,8), mentre l’India è a 2,5 (e nel 2022 sarà il paese più popoloso al mondo superando la Cina), l’Indonesia è pure a 2,5, il Pakistan a 3,7. Sopra quota 2 (a 2,2) sono l’insieme dell’America Latina e dei Caraibi. Poi c’è l’africa subsahariana dove, come già detto, siamo a 5,1. Cambiare queste cifre, cioè modificare comportamenti sociali e culturali, richiede anni e occorre avere strumenti e risorse ad esempio nel campo dell’educazione, della sanità e della prevenzione che non tutti hanno.

Ridurre le diseguaglianze Dunque, da qualunque parte si voglia guardare, la sostanza è che la parte povera del mondo continuerà a crescere con le cifre che qui abbiamo detto, mentre l’Europa invecchierà progressivamente. La popolazione attiva (dai 20 ai 65 anni) nei paesi sviluppati calerà, da qui al 2050, da 758 a 607 milioni di persone, mentre nei paesi meno sviluppati crescerà da 3 miliardi e 478 milioni e 4 miliardi e 813 milioni. Dunque è evidente, come aveva detto un grande economista come John Kenneth Galbraith che la migrazione resta la via più sicura per uscire dalla povertà. Vale nel rapporto tra Europa e Africa, vale nel rapporto tra Stati Uniti (dove pure l’emigrazione è tema centrale della campagna elettorale in corso) e Sud America. Questo a meno che il mondo non sappia ridurre le diseguaglianze e costruire un modello di sviluppo che faccia diventare più ricchi i paesi poveri e provi davvero a ridurre le diseguaglianze. Altrimenti ci stancheremo di costruire muri per cercare di fermare persone che partono in cerca di una vita migliore.

marzo 2016

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