Ee ci ponessimo la classica domanda: “A chi giova tutto ciò?”, sarebbe facile trovare dei colpevoli per la pandemia. È la Cina a guadagnarci di più? Più su. È “Big pharma”, cioè i produttori dei vaccini anti-Covid? Più su, più su. La risposta migliore a questa domanda un po’ scontata ma che si sente in giro sarebbe “Big tech“, ovvero i giganti del web-soft (le multinazionali del software e quelle che operano su Internet) che si sono arricchiti enormemente per effetto della crisi mondiale, con ricavi balzati in avanti di oltre il 20%.
La sola Amazon nella prima metà dell’anno ha fatturato il 33% in più (146,3 miliardi di euro) rispetto al corrispondente periodo del 2019, doppiando Google (70,7 miliardi contr 67) e Microsoft (65 miliardi contro 57,2) e aumentando di un quarto gli utili. In assoluto, però, è stata Nintendo, la regina dei videogiochi, ad aver registrato i maggiori incrementi, con un +71,5% di ricavi e un +303,4% di profitti nello stesso semestre del primo lockdown.
Ovviamente non è serio partire dal “cui prodest?” per arrivare ad attribuire responsabilità in assenza di prove. Tuttavia è serio, anzi doveroso occuparsi di chi – pandemia o meno – ha accumulato un potere enorme in questi anni al punto di condizionare le nostre vite con l’utilizzo dei nostri clic, cioè rendendoci protagonisti inconsapevoli di uno scambio. È il famoso scambio, “servizi contro dati personali”, che il garante della privacy, Pasquale Stanzione, ha riassunto efficacemente nella formula: “Quando è gratis, il prodotto sei tu”. Cioè siamo noi a pagare con una moneta chiamata privacy le app e tutti gli altri servizi di cui ci avvaliamo in quella che solo apparentemente è la “zero-price economy“. È avviato un dibattito, in Europa, sulla monetizzazione di questo scambio e c’è una start up italiana, Weople, che aggrega le notizie personali e le rende anonime – pronte ad essere vendute solo se lo vogliamo -, a sua volta sotto la lente della Ue su iniziativa del nostro garante, perché la commercializzazione dei dati (quale valore attribuire? come evitare nuove forme di disuguaglianza?) resta un tema caldo e delicato.
Le informazioni su di noi vengono raccolte da vari canali: attraverso i social, le consultazioni su Internet, gli acquisti che effettuiamo, le preferenze politiche, religiose, sessuali e tanto altro che digitiamo allegramente. O ci vengono carpite a nostra insaputa attraverso cookies, pop-up, ecc, per poi essere trattate con attività cosiddette di “analytics“, cioè organizzate e ottimizzate dalle società di marketing.
I colossi “Bigh tech” entrano in possesso di questi pacchetti di dati e ci costruiscono sopra i loro affari profilandoci e “vendendoci” quando va bene agli inserzionisti, mentre quando va male le nostre identità digitali cadono nelle mani di chi opera nel “deep web” con finalità illecite o comunque al di fuori del nostro controllo: un mercato nero in cui un account Netflix si vende a un paio di dollari.
C’è un problema dunque di diritti, accanto a uno fiscale (l’incidenza delle tasse pagate è di appena il 16,4%, briciole a confronto della pressione fiscale che grava ad esempio sulle aziende italiane) e a un problema di concentrazione del mercato che allarma, e non poco, gli Stati Uniti e l’Europa (vedi box a seguire). Basti pensare che a Wall Street cinque sole aziende (Apple, Amazon, Microsoft, Facebook e Alphabet, la società a cui fa capo Google) coprono ormai un quarto dell’intero indice della Borsa di New York: cinque aziende e tutte, a differenza che in passato, delle stesso settore, con il rischio che l’intero listino crolli per un crash della rete, uno scandalo simile a Facebook-Cambridge Analytica o per calamità di altra natura e matrice.
Travolti da un’insolita valanga Ma partiamo dalla privacy. Dov’è finito questo sacrosanto diritto – protetto dal regolamento europeo in materia di trattamento dei dati personali e di privacy (Gdpr), adottato nel 2018 – nella “società dei dati” in cui siamo immersi e lo saremo sempre più? «Ogni anno la produzione mondiale di dati doppia quella di tutta la storia dell’umanità stabilita fino all’anno precedente», osserva Ginevra Cerrina Feroni, vice presidente dell’autorità Garante della privacy. Una mole astronomica di dati pari a 44,8 zettabyte, cioè quasi 50 volte mille alla settima potenza. La previsione era di raggiungere questa cifra nel 2022, ma potrebbe accadere già quest’anno, per via dei lockdown e del conseguente maggiore utilizzo delle reti e delle connessioni digitali. E a sfornare i dati non sono solo gli uomini, ma anche le macchine e le intelligenZe artificiali. È pensabile potersi “scudare” davanti all’0ceano che monta e a Internet delle cose che avanza?
Anche per questo alcuni, come l’economista ed ex ministro Vincenzo Visco, sostengono che la tutela della privacysia ormai una chimera e rappresenti un ostacolo al perseguimento di esigenze collettive: dalla sanità pubblica (come nel caso del “contact tracing”, la tracciabilità dei contatti) al contrasto dell’evasione fiscale, dalla ricerca scientifica ad altri campi. Di fatto è un diritto che via via si restringe come un vecchio maglione nell’agorà informatica dove tutto è in vetrina. O non bisognerebbe, piuttosto, accettare il fatto che è un diritto che si rimodella e si adegua al mutare dei tempi, come succede per il concetto di pudore o per la disponibilità all’esposizione mediatica?
Guai a ritenerlo un vero e proprio ostacolo, ammonisce il garante che è intervenuto su questo punto negando che la privacy sia un intralcio alla gestione della pandemia. Stanzione ha rivendicato risultati importanti come la app Immuni, che non geolocalizza nessuno e rispetta l’anonimato, al contrario delle app coreane o cinesi che adottano forme di biosorveglianza. «Il nostro contributo è servito ad essere contemporaneamente più efficaci, ma non meno liberi», ha sottolineato, riaffermando la sua visione della privacy come «presidio di democrazia» E nella nostra intervista mette in guardia dalle “servitù volontarie” cui può condannarci l’utilizzo inconsapevole delle nuove tecnologie.
Su questa linea si colloca anche il sociologo Antonio Casilli, che critica l’ipotesi della fine della privacy come conseguenza degli utilizzi dei social media. Non scompare, ma cambia la sua percezione e cambia il suo significato che va verso «la costruzione e la gestione del capitale sociale online di un individuo». Casilli inoltre evidenzia, nel suo libro “Schiavi del clic”, il lavoro sociale che tutti noi svolgiamo in rete come “utenti-produttori di contenuti e dati”, gratis e senza vincolo di subordinazione alle piattaforme digitali.
Al di là delle dispute teoriche, va detto che il Gdpr ci darebbe gli strumenti per recuperare e proteggere i nostri dati, ma è anche vero che nel quotidiano la privacy online è poco più di un miraggio. Alzi la mano chi si mette a ogni videata a distinguere i cookie tecnici (il cui grado di invasività è considerato minimo, e per tale motivo sono esentati dal consenso informato) da quelli per le società terze che vogliono invece profilarci.
E nemmeno è facile nascondere l’indirizzo IP per non farci “spiare” se non utilizzando una Vpn (cioè una rete virtuale privata), che ci fa apparire collegati da un altro nodo della rete rispetto a quello in cui siamo realmente, rallentando però in questo modo la connessione.
Un altro stratagemma per provare a eludere la sorveglianza – a quanto dicono i tecnici – è andare su Tor, un software libero che consente una navigazione anonima ma anche in questo caso più rallentata. Qualche risultato, inoltre, si può ottenere sulle piattaforme open source, ma ancora meglio sarebbe averne di dedicate senza avere l’assillo di dover sfuggire a chi ci pedina attraverso gps, foto e contatti, seguendo qualunque traccia lasciata in rete. Perché se è vero che i dati personali sono il motore dell’economia digitale, è altrettanto vero che noi siamo il petrolio, cioè la ricchezza primaria che brucia senza controllo.
Fammi un fisco che me ne vado… L’altra grande questione è di natura fiscale. Stabilendo le sedi nei paesi a fiscalità agevolata, infatti, i 25 maggiori gruppi del settore hanno evitato di pagare negli ultimi cinque anni 46 miliardi di tasse (Microsoft 11,2, Google 11,6 e Facebook 7,5). Lo ha calcolato uno studio di Mediobanca che ovviamente parla anche dell’Italia. Se guardiamo ai bilanci delle società con sede nella Penisola, quello che scopriamo è che l’aliquota fiscale effettiva corrisposta è stata pari al 31,1%, una percentuale risibile se pensiamo che Microsoft, Amazon e Google da sole valgono quanto il Pil della Germania. Il piatto piange proprio mentre l’ascesa delle multinazionali web-soft è irresistibile: procede a un ritmo dieci volte superiore a quello delle multinazionali manifatturiere (+118,3% contro +10% negli ultimi cinque anni), tra food delivery, e-commerce e altre attività in espansione.
Proprio sull’e-commerce e sulla direttiva che lo governa, ormai vecchia di vent’anni, si è soffermato il Parlamento europeo. Che più in generale ha chiesto alla Commissione “regole a prova di futuro”‘ per tutti i servizi digitali, con l’idea di garantire i diritti degli utenti e regolare le distorsioni che si sono formate in tutti questi anni. Finalmente si arriva a dire che “la decisione sulla natura lecita o meno dei contenuti dovrebbe essere presa da un organo giuridico indipendente e non da aziende private”. Poi si reclama “meno dipendenza dagli algoritmi e più controllo degli utenti sui contenuti a cui sono esposti”, nonché, dov’è possibile, “il diritto di usare i servizi digitali in modo anonimo”.
Di privacy, insomma, sentiremo parlare ancora molto e a lungo. E pure di regole più severe per le piattaforme web. Il commissario Ue ha infatti annunciato due imminenti interventi (il “Digital service act” e il “Digital market act”), previsti entro la fine dell’anno, che guardano ai prossimi due decenni che saranno di “esplosione digitale”.