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Don Ciotti: “Democrazia e lavoro contro le mafie”

don-luigi-ciotti-libera.jpgPrimo protagonista e animatore della battaglia contro le mafie è sicuramente don Luigi Ciotti, fondatore e presidente di Libera, la rete che riunisce oltre 1.500 associazioni impegnate nella battaglia per diffondere la cultura della legalità e della giustizia. Ecco cosa don Ciotti ci ha raccontato.

Che bilancio si può trarre a 20 anni dall’entrata in vigore della legge sulla gestione dei beni confiscati e cosa rappresenta questa esperienza nella battaglia contro le mafie?
Nonostante i problemi, i ritardi, le difficoltà, è un bilancio tutto sommato positivo. In tante regioni i beni confiscati sono diventati scuole, asili, servizi di accoglienza, centri per anziani, biblioteche, cooperative agricole. In una parola: luoghi di dignità, di lavoro, di crescita umana, sociale, culturale, economica. Penso, ad esempio, alle migliaia di giovani che ogni estate passano una parte delle vacanze in un bene confiscato. Danno una mano, fanno comunità, studiano le mafie, i loro legami e ricadute nella vita sociale, ma soprattutto imparano che il contrasto alle mafie comincia dalla responsabilità, dall’impegno per il bene comune. Quanto al percorso nel suo complesso, la legge per la confisca e l’uso sociale dei beni mafiosi ha rappresentato uno spartiacque nella lotta alle mafie. Non esisteva ancora, infatti, uno strumento legislativo che legasse la fase repressiva con l’impegno sociale, e mettesse in evidenza che per combattere le mafie non bastano gli arresti e i processi, occorrono politiche sociali, lavoro, cultura, servizi. In una parola, democrazia. È proprio per sottolineare il valore di questo percorso che abbiamo voluto ricordare il ventennale della legge aprendo lo scorso 7 marzo più di 150 realtà in tutta Italia. Un’occasione, offerta ai cittadini, di percepire la speranza che si fabbrica in quei luoghi e capire che quello dei beni confiscati è un cammino certo impegnativo, ma essenziale se vogliamo colpire alla radice il potere delle mafie e della corruzione.

Minacce, incendi, danneggiamenti: in questi anni contro chi gestiva i beni sequestrati non è mancata la prova tangibile che alle mafie questa cosa dava fastidio…
La confisca dei beni infastidisce le mafie per tre ragioni. La prima è economica: un bene sottratto colpisce il loro patrimonio, dunque il loro potere. La seconda simbolica: nate come fenomeno rurale, le mafie vedono ancora nel possesso della terra, nella sua edificazione selvaggia e sfruttamento indiscriminato non solo un grande affare – i profitti delle “agromafie” e delle “ecomafie” lo dimostrano – ma un segno di prestigio e di potere. Confiscare quelle terre, bonificarle, trasformarle, restituirle alla fecondità della vita, del lavoro, delle relazioni, rappresenta per i boss il più grave degli affronti. La terza ragione è di carattere culturale: l’impegno su quei beni scava, oltre che nella terra, nelle coscienze, scuote le persone dalla rassegnazione, dimostra che è possibile, unendo le forze, costruire un futuro diverso. In altre parole non si limita a disturbare il potere mafioso, ma colpisce alla radice la sua mentalità.

Dopo venti anni, sul piano legislativo, cosa c’è da migliorare o cambiare per rafforzare questa esperienza?
La legge 109 è certo uno strumento non ancora utilizzato in tutte le sue potenzialità. Sono senz’altro positivi alcuni recenti provvedimenti – dal trasferimento del controllo dell’Agenzia nazionale alla Presidenza del Consiglio, all’istituzione di un “fondo di garanzia” per le imprese, all’estensione della normativa ai beni dei corrotti, a norme stringenti sulla nomina degli amministratori dei beni, sui loro compensi e sulla durata dell’incarico – così come la nascita di realtà come “Impresa bene comune”, per coinvolgere la parte più lungimirante del sistema imprenditoriale nella partita decisiva delle aziende confiscate, che vanno messe in grado di ripartire, generare lavoro e economia pulita. Ma una piena e efficace applicazione della 109 richiede un rafforzamento, anche in termini di organico, dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati; una più attenta gestione della fase giudiziaria; un maggiore coinvolgimento degli enti locali nel processo di assegnazione e di riutilizzo. Più in generale, una strategia in grado di evidenziare il valore etico, sociale, culturale e, non ultimo, economico dei beni confiscati.

Libera non opera (se non per pochissimi e marginali casi) nella gestione diretta di questi beni. Eppure qualcuno ha mosso critiche sul vostro ruolo evocando una sorta di monopolio. Come rispondete?
Chi ha parlato di “regime di monopolio” ha anche parlato di “gestione pericolosa”, di una realtà che “sembra un partito” e tutto ciò dopo aver fatto cenno a “associazioni nate per combattere la mafia che hanno acquisto l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse”: parole di cui chiederemo conto nelle sedi opportune, perché una cosa sono le critiche documentate, un’altra le accuse generiche, un’altra ancora le diffamazioni. Ciò detto Libera – realtà imperfetta ma pulita – gestisce solo sei beni in tutta Italia, utilizzati come sedi locali dell’associazione. Le nove cooperative che operano sui terreni confiscati sotto la sigla di “Libera Terra”, sono state promosse da Libera, ai cui principi continuano a ispirarsi, ma si tratta, giuridicamente e amministrativamente, di soggetti autonomi d’impresa sociale. Per la gestione dei beni, inoltre, Libera non riceve contributi pubblici: convenzioni vengono stipulate unicamente per lo svolgimento di attività statutarie legate alla formazione, allo studio, alla ricerca. Infine sono più di 500, in Italia, le iniziative promosse sui beni confiscati da realtà laiche e religiose: associazioni, cooperative, comunità, gruppi e parrocchie. Iniziative nelle quali Libera non ha altro ruolo se non quello di promuovere, sostenere, informare. Non c’è dunque alcun monopolio. E chi lo afferma, per ignoranza o per malafede, colpisce non solo Libera ma un progetto di cambiamento di cui Libera è un semplice strumento. Il fine di Libera non è Libera, ma la giustizia sociale e la dignità delle persone. 

Visti i percorsi complessi e i tempi lunghi che ci sono nella gestione dei beni sequestrati, c’è chi propone di venderne una parte per garantire almeno un incasso immediato allo Stato. Quali sono gli inconvenienti se si scegliesse questa strada?
Premesso che Libera non ha mai escluso in assoluto la vendita, tanto che già nella petizione popolare del 1995 per la raccolta di firme, si prevedeva la possibilità di vendere “beni immobili improduttivi” (purché i proventi fossero destinati a iniziative per il lavoro e contro l’emarginazione) l’ipotesi di una vendita indiscriminata è da respingere per due ragioni. Perché espone al rischio che i beni, tramite prestanome o complicati meccanismi finanziari, tornino nella disponibilità delle mafie. E perché sarebbe uno schiaffo alla speranza di tante persone e un favore ai boss, per i quali invece proprio la confisca resta lo schiaffo più doloroso.

 

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