Ci sono fatti che assumono immediatamente una valenza simbolica di grande portata, episodi che segnano definitivamente un cambiamento, una novità che viene, in qualche modo sancita proprio da quell’evento. La nomina di Cécile Kyenge a ministra dell’integrazione nel governo Letta è sicuramente uno di questi fatti. Con migrazioni da paesi lontani e con la presenza di milioni di stranieri la società italiana (e non solo quella) si sta confrontando da ormai una ventina d’anni. Ma vedere per la prima volta una donna, nata in Congo, medico oculista con studi tra Roma e Modena, e ora diventata ministro, segna, anche solo sul piano simbolico, una considerazione diversa di tutto quanto è legato a questa straordinaria evoluzione della società italiana.
Proprio per questo abbiamo deciso di intervistare la ministra Kyenge, anche perché le cose di cui si occupa, i temi dell’integrazione, delle solidarietà, del riconoscimento dei diritti, della promozione di uno sviluppo equilibrato tra nord e sud del mondo, sono temi che fanno parte del patrimonio di base di Coop, della cooperazione e del suo modo di essere.
Com’è stato l’impatto a ritrovarsi improvvisamente nel ruolo di ministro, tra tanti riconoscimenti ma anche finendo vittima di attacchi volgari e razzisti? Rispetto all’idea che aveva di questo Paese sono più le delusioni o le sorprese positive?
«La mia nomina è stata una sorpresa e il suo impatto è stato fortissimo. Accanto a questo, va però sottolineato che ho seguito un percorso politico, oltre che nella società civile, all’interno del PD, e in particolare nel Forum immigrazione e nel Consiglio provinciale di Modena. Senza queste esperienze pregresse, non sarei mai diventata ministra. Le delusioni ci sono, ma se l’obiettivo rimane quello di riuscire a realizzare qualcosa di utile, passano in secondo piano. Anzi, si trasformano in punti di forza, ti danno la spinta per proseguire. A certe offese violente che ho ricevuto ho scelto di non rispondere perchè voglio allontanare ogni violenza da me e da un linguaggio che spinge tutti in una spirale perversa. Il punto è che chiunque deve sentirsi offeso, non solo io».
Da tanti episodi di vita quotidiana ai casi più eclatanti nel mondo dello sport il tema del razzismo emerge di continuo. Da dove nasce il razzismo e come si combatte?
«Io credo che il problema nasca, oltre che da una carenza di sensibilizzazione sul tema, da un’informazione non sempre corretta. L’Italia è un Paese di recente immigrazione; si è passati da circa un milione di immigrati degli anni ’90 ai cinque milioni attuali. Il mondo dell’informazione avrebbe potuto contribuire alla conoscenza reciproca. A prevalere, invece, è stata la paura dell’altro, una visione allarmistica dei flussi migratori. Che ci siano delle differenze è naturale: l’errore sta però nel concentrarsi solo sulle cose che ci dividono, quando ci sono tante altre che uniscono. La lotta al razzismo deve abbracciare tutti i settori, dallo sport al lavoro, con un’attenzione particolare al mondo della scuola. È qui che bisogna insegnare che le persone, qualunque sia la loro nazionalità, sono uguali davanti alla legge; che i diritti, per loro natura, sono indivisibili e universali».
C’è ancora chi fatica a riconoscere che viviamo in una società multietnica. Quale percorso o modello secondo lei è giusto che in Italia si persegua per far dialogare e convivere culture e provenienze così diverse?
«Io credo non esista un modello perfetto. Ogni Paese, a seconda del proprio percorso interno, deve cercare quello giusto. L’auspicio, valido per tutti, è che non si creino ghetti interni, che si promuova una reale interazione tra le persone. Quando parlo di meticciato intendo questo: la possibilità di mescolare gli individui senza che questo comporti la cancellazione delle proprie diversità; diversità che devono arricchire la società. Una società interculturale di per sé esiste già: lo vediamo, ad esempio, nella cucina, nella musica, nella nostra quotidianità. Il problema è che si fatica a vederlo».
Con la crisi economica c’è chi sostiene che gli immigrati dobbiamo aiutarli nel loro paese, qui non c’è lavoro neppure per gli italiani. Come risponde a chi pensa questo?
«La crisi occupazionale non va vista in termini di nazionalità o di origine delle persone: il lavoro è una priorità, ma lo è per tutti. Nel nostro Paese ci sono 2 milioni e 300 mila lavoratori di origine straniera, che versano circa 8 miliardi di euro di contributi, e la maggior parte di questi è formata da giovani. Tenendo conto dei dati demografici e guardando il fenomeno in prospettiva, è evidente il valore del loro apporto dal punto di vista economico e lavorativo. Le colpe della crisi non possono essere addossate ai migranti, che sono invece una risorsa».
Che importanza ha l’uso delle parole e del linguaggio nel combattere intolleranza ed emarginazione?
«Fondamentale: la lotta al razzismo passa anche dall’utilizzo di un linguaggio e di una terminologia corretti. Quando mi sono insediata al Ministero, ho puntato molto sull’uso appropriato delle parole, citando anche la Carta di Roma come riferimento per i media, e ciò perché credo che la comunicazione sia un’arma efficacissima per combattere pregiudizi e stereotipi».
Lei ha indicato il riconoscimento della cittadinanza per chi nasce in Italia, anche se figlio di stranieri, come una delle priorità. Perché?
«Le priorità non le stabilisco io. Quando parlo della necessità di una nuova legge sulla cittadinanza, non faccio altro che una lettura dell’Italia. Interpreto le istanze che provengono dalla base, il confronto che si sta attuando, anche in Parlamento, sulla tematica. La mia conclusione è che bisogna dare delle risposte ad un Paese, il nostro, che è cambiato. La riforma della legge n. 91 sulla cittadinanza, credo vada in questa direzione».
La cooperazione può aiutare a combattere le disuguaglianze?
«Credo che l’ottica migliore per pensare alla cooperazione sia quella del co-sviluppo, e cioè un processo che leghi in maniera indissolubile il Paese di origine a quello di destinazione del migrante. I movimenti migratori innescano prassi virtuose, collegano zone, regioni del mondo distanti una dall’altra; in una realtà sempre più interconnessa tutto ciò si trasforma in una risorsa. Grazie al mutuo scambio si potranno distribuire i vantaggi delle trasformazioni socio-economiche anche ai Paesi impoveriti, e così contribuire alla riduzione delle disuguaglianze che, nella situazione attuale, per i migranti, si travasano dal Paese di origine a quello di destinazione, senza soluzione di continuità».
Nati in italia ma senza cittadinanza
Rilanciata dalla ministra Kyenge, ma da tempo sostenuta da tanti altri gruppi e associazioni, c’è la proposta legata al cosiddetto ius soli, cioè alla scelta di riconoscere la cittadinanza italiana a chi è nato nel nostro paese, anche se figlio di stranieri (oggi, ragazzi nati e sempre vissuti qui non hanno questo diritto). I minori stranieri nati in Italia, secondo i dati Istat, sono circa 500 mila e rappresentano il 60% sul totale dei minori stranieri presenti. Nell’anno scolastico 2011/2012 gli alunni stranieri nelle scuole del paese erano 755.939, pari all’8,4% del totale della popolazione studentesca (+6,4% rispetto all’anno precedente). Di questi, quelli nati in Italia rappresentano il 44,2%, pari a 334.284 presenze. Nelle preferenze scolastiche esistono notevoli differenze tra italiani e stranieri. Infatti gli alunni stranieri si concentrano negli istituti professionali (40,4%) e nei tecnici (38%), seguiti a distanza dal binomio liceo classico–liceo scientifico (13,4%); gli italiani invece prediligono i licei classico o scientifico (35%), gli istituti tecnici (33,3%) e, in misura minore, i professionali (18,9%).
Coop, circa 480 mila soci sono stranieri
Anche il mondo Coop che a fine 2012 registrava 7 milioni e 900 mila soci in tutta Italia, è caratterizzato da una sempre più significativa presenza di stranieri sia tra i soci che tra i dipendenti. Il rapporto sociale curato da Ancc-Coop indica che, a fine 2011, un 6% tra i soci era di nazionalità extraeuropea. Facendo una proporzione sull’insieme dei soci, un 6% significa circa 480 mila persone. Soci di origine straniera sono presenti anche tra gli eletti negli organismi di rappresentanza sociale delle cooperative. Anche tra i dipendenti il numero di stranieri è cresciuto progressivamente ed è oggi intorno alle 1.000 unità: tra questi dipendenti c’è anche Dora, sorella della ministra Kyenge, che lavora all’Ipercoop di Pesaro “Mirafiore”.
In un anno nel mondo 214 milioni di migranti
Dato che di globalizzazione si parla in continuazione (spesso pensando all’economia e alle merci) è bene ricordarsi che anche guardando alle persone il mondo è più che mai globalizzato. Secondo gli organismi internazionali, nel 2010 si sono registrati 214 milioni tra migranti e rifugiati (cioè come se l’intero Brasile si spostasse altrove). Sempre nel 2010 il saldo migratorio nell’insieme dell’Unione europea è stato positivo per 950 mila unità, concentrandosi per tre quarti in Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Spagna. La Ue, assieme al Nord America è il principale polo immigratorio al mondo. Molti sono coloro che si muovono perché costretti da guerre e conflitti: nel 2011 si tratta di 42,5 milioni di persone.