L’analfabetismo è una delle maggiori piaghe d’Italia e ha dimensioni drammatiche, per un paese industrializzato. Un fenomeno che ha anche conseguenze politiche, sociali ed economiche. Secondo lei, quali?
Nel 2000 e nel 2006 abbiamo avuto due indagini internazionali sui livelli di alfabetizzazione letterale e numerica (literacy e numeracy in inglese) svolte in molti paesi industrializzati osservando la capacità di rispondere adeguatamente a cinque questionari di livello crescente di difficoltà sottoposti ad adulti e adulte in età di lavoro (16-65 anni). Persone con competenze non superiori al questionario di secondo livello sono definite al di sotto dei “requisiti minimi per orientarsi nella vita di una società moderna” (dice il rapporto finale). Fasce di popolazione in tale condizione si trovano in quasi tutti i paesi e, anzi, proprio la supposizione della loro esistenza ha mosso il Canada e altri stati a sostenere l’indagine per avere dati certi. Ciò che ha colpito per l’Italia è la dimensione di tali fasce, non un residuo marginale, come altrove, ma la grande maggioranza degli adulti in età di lavoro: il 71%. Entro questo 71% troviamo, per di più, il 5% di persone totalmente incapaci di decifrare lettere e numeri, prive di ogni capacità alfabetica, e il 33% di persone che non riescono a procedere oltre il primo questionario. Sono persone tagliate fuori completamente da ogni informazione veicolata in forma scritta: avvisi al pubblico, cautele contro infortuni, tracciabilità di alimenti, indicazioni su medicinali, istruzioni per l’uso, e, ovviamente, giornali e libri.
Perché non si è riusciti ad arginare il fenomeno, se non tra gli anni ’60 e ’70, quando forse è esistito un ascensore sociale anche culturale?
Perché in generale le classi dirigenti italiane (politici, giornalisti, imprenditori, professori ecc.), tranne eccezioni storiche assai rare (Giovanni Giolitti, Calamandrei e i padri costituenti), non hanno mai amato e non amano occuparsi di scuola e istruzione e hanno in proposito idee molto vaghe. Vedono l’istruzione e le agenzie culturali come una spesa, non come un investimento.
Lo stato di analfabetismo in cui versa parte della popolazione è anche una questione di diritti negati. Lei crede che ci sia stata in passato, da parte di chi ha governato, una precisa volontà di escludere gli italiani da saperi e competenze che li avrebbero potuti rendere più consapevoli e, in definitiva, più liberi?
Non solo la sordità, ma l’ostilità verso l’istruzione la si trova descritta e documentata in lavori storici e sociologici.
Cosa sarebbe necessario fare oggi – a livello di programmi politici – per contrastare il fenomeno?
Semplice: diventare capaci di selezionare gruppi dirigenti sensibili ai problemi dell’arretratezza della popolazione e alle esigenze di sviluppo a medio e lungo termine.
Ci sono delle responsabilità da parte di certa televisione?
Con le leggi sull’etere dei primi anni novanta abbiamo spinto tutte le reti televisive a una corsa al ribasso nella convinzione che l’indecenza sia attraente per il gran pubblico e porti pubblicità. Certo questo non ha giovato.
Cosa consigliare alle persone per non perdere ciò che si è appreso a scuola e per non rischiare l’analfabetismo di ritorno?
Anche qui la risposta è davvero semplice: procurarsi qualche libro e leggerlo.