Ore 10:35. Il calo del petrolio condanna le Borse alla debolezza. Il barile Wti, la qualità americana, è tornato sotto la soglia dei 31 dollari. In arretramento anche il Brent, che resta sopra la soglia dei 33,5 dollari al barile”.
È la cronaca di un giorno di ordinaria negatività sul fronte dei mercati finanziari, sempre più petrolio-dipendenti. Un giorno di febbraio, ma di un febbraio che dura dal giugno del 2014. Allora il valore di un barile era di 116,7 dollari. In un anno e mezzo abbiamo assistito a una discesa inarrestabile con continui scavalcamenti in basso. Lo scorso 7 gennaio per la prima volta in dodici anni il barile è sceso sotto la soglia dei 30 dollari.
Inverno “nero”, dunque, come il colore del greggio la cui attuale sovrapproduzione nel mondo è tale che, combinata con la frenata della domanda (a partire dalla locomotiva Cina), dà vita a uno schiacciamento dei prezzi che si mantengono stabilmente bassi. Le conseguenze sono varie e di vasta portata. Positive? Negative? Per la civiltà del petrolio siamo vicini a un punto di svolta, ai saldi di fine stagione, o più modestamente dobbiamo chiederci quali siano le ricadute di questo inatteso “low cost” sull’ambiente e sui consumatori?
Cambia il mondo Secondo vari analisti il calo prolungato del prezzo del petrolio sta non solo affossando le Borse (legatesi a doppio filo a questa commodity dopo la crisi finanziaria), ma sta cambiando il nostro mondo. Lo sostiene ad esempio il venezuelano Moisés Naím, editorialista ed economista di fama internazionale, secondo il quale “stiamo scoprendo come il calo assolutamente improvviso e consistente del prezzo del greggio può avere conseguenze altrettanto nefaste della quadruplicazione dei prezzi del petrolio che caratterizzò lo shock petrolifero del 1974″.
Con il mini-greggio l’economia non si riprenderà più. È la chiosa che fa uno dei massimi esperti mondiali di energia, Leonardo Maugeri, che se non arriva a sottoscrivere il pessimismo del finanziere George Soros – che nel petrolio vede un fattore scatenante per una nuova crisi come i subprime lo furono nel 2008 – poco ci manca. Per Maugeri “il peggio deve ancora venire”, aggravato dal fatto che non si trova un accordo tra i paesi produttori (in aperta guerra tra loro, in primis Arabia Saudita contro Iran) per tagliare le estrazioni di petrolio, facendo così risalire i prezzi e aiutando, aggiungiamo noi, il pianeta Terra a risolvere i suoi gravi problemi climatici e d’inquinamento.
Tenere il petrolio nel sottosuolo avvierebbe infatti il processo di decarbonizzazione di cui tanto si è parlato alla Cop 21 di Parigi. Ma né Russia né l’Opec fanno passi indietro e le chiatte vagano per i mari: il gap tra la domanda e l’offerta per il terzo anno di fila è di un milione di barili al giorno (dati Iea).
All’origine del crollo Va premesso che il calo prolungato del prezzo del greggio era imprevedibile e imprevisto. “Proprio quando ci aspettavamo un forte aumento – riassume Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, tra i maggiori conoscitori della materia – è avvenuto il contrario. E questo per ragioni politiche. A metà 2014 c’era la paura che l’Isis prendere il controllo dell’intero Iraq: i prezzi sarebbero schizzati a 200 dollari. Non solo è stato fermato lo stato islamico, ma addirittura per fermarlo hanno dovuto chiedere aiuto all’Iran sbloccando le sanzioni sul nucleare. Questo ha fatto arrabbiare l’Arabia Saudita che come reazione ha detto: adesso produco tutto ciò che voglio. Ne è nata una competizione politica sul petrolio in Medio Oriente che è all’origine dei crollo dei prezzi”. A ciò va aggiunto il boom della produzione americana: circa 4 milioni di barili in più al giorno (il record in aprile con 9,6 milioni) quale risultato della rivoluzione tecnologica dello tight oil e dello shail gas. La corsa alle fratturazioni idrauliche partì dieci anni fa perché allora il prezzo viaggiava verso i 100 dollari, la mossa conveniva. Oggi invece 42 società di fracking americane sono già saltate e il rischio è di un effetto domino.
La morale? I prezzi si formano in pochi minuti, ma i processi industriali si concretizzano nell’arco di anni, talvolta di decenni e ci vuole tempo anche perché si formi la domanda, sia essa di macchine ibride, di macchine elettriche o soltanto più efficienti o ecologiche. Più determinante e rapido è l’agire della politica.
Tornando invece ai prezzi, per quanto tempo potremo disporre di un petrolio così a buon mercato? L’ipotesi più accreditata è di un assestamento con leggeri rialzi per tutto il 2016. Per due o tre anni lo scenario più probabile sarà non oltre i 50 dollari. Quali ripercussioni avremo con questo trend?
L’impatto sull’ambiente Anzitutto un disimpegno, che è già in atto, nel settore. Nel 2014 gli investimenti in nuovi progetti petroliferi sono scesi del 20%, “la flessione più forte della storia”, e un ulteriore decremento del 16% è atteso quest’anno. Lo ha riferito al recente World Economic Forum di Davos, Faith Birol, direttore dell’Agenzia Internazionale per l’Energia. Una buona notizia per gli ambientalisti e in chi crede in un mondo più pulito.
Sennonché i consumi petroliferi – in Italia ad esempio – sono aumentati del 3,6% sul 2014 (59,7 milioni di tonnellate) interrompendo una discesa ventennale (dati Unione petrolifera). Qualche dubbio sul tramonto della civiltà fossile viene. Tabarelli a questo tramonto non crede affatto, visto che il fabbisogno energetico segue ritmi di crescita del 30%. E che la domanda di energia globale e in particolare di petrolio raggiungerà un nuovo record quest’anno: 97 milioni di barili al giorno.
Quello che sta rallentando, in realtà, fa notare il professore, è il tasso di crescita. E ciò vale anche per il gas che ha avuto prezzi in caduta libera, un po’ meno per il carbone (la fonte più inquinante e a basso costo, utilizzata ancora per produrre il 40% dell’energia elettrica mondiale) perché nelle statistiche recenti sono cresciute molto le rinnovabili (grazie soprattutto all’idroelettrico, favorito da un 2014 molto piovoso) divenute ora competitive.
Rinnovabili da record È rassicurante sapere che mentre il petrolio “basso” va messo in correlazione con i trasporti, le fonti rinnovabili (idroelettrico, fotovoltaico, solare, eolico, ecc.) servono soprattutto per produrre energia elettrica e vanno per una strada autonoma. Lo sottolineano gli stessi ambientalisti con soddisfazione. “A parte l’Italia che disincentiva nel settore – afferma Mariagrazia Midulla, responsabile clima e energia WWF Italia – gli investimenti in tutto il mondo si confermano in ascesa”. Nel 2015 il livello è stato da record: 328,9 miliardi di dollari (dati Bloomberg new energy finance), sei volte quelli del 2004. Il che autorizza la nota società che fa analisi di mercato a dire che “è il passaggio all’energia pulita ad influenzare il prezzo del petrolio e non viceversa”.
Comunque sia, secondo Tabarelli “sarebbe certamente meglio un prezzo oltre i 100 dollari per forzare i cambiamenti verso economie più verdi. Tuttavia ci sono dei trend di fondo inarrestabili anche nel mondo dei trasporti”, osserva. “Oggi abbiamo auto ibride che riescono a fare fino a 40, 50 chilometri con un litro. Sono risultati straordinari. Poi ci sono gli impegni presi dalle società automobilistiche per ridurre la Co², la tecnologia muove tutta in questa direzione. Come gli anni Settanta, quelli della crisi petrolifera, non hanno interrotto il consumo di petrolio, allo stesso modo adesso il basso prezzo non interromperà il trend in corso”.
Nel 1998 il barile scese a 10 dollari, ma continuò lo stesso il processo di efficientamento energetico per trovare alternative valide come l’idrogeno, il biodiesel, i biocarburanti. L’obiettivo era ed è sempre quello di passare con tutte le gradualità del caso dalla carbon economy alla green economy. Oggi ci sarebbe un’occasione in più – quella di ridurre le estrazioni di petrolio – sulla quale anche i mercati sarebbero probabilmente d’accordo. Se solo si trovasse uno straccio di accordo politico, sostenibile…