Chi non ha sentito parlare almeno una volta di Pienza, la città voluta da papa Pio II in pieno Rinascimento? Anche oggi c’è chi progetta e realizza “città ideali” in giro per il mondo. Non il papa, ma la Toyota in Giappone, a pochi chilometri da Tokyo, il governo cinese a Shenzen, l’emiro di Dubai in un luogo chiamato Sustainable City, un altro emiro vicino ad Abu Dhabi in quella che si chiamerà Masdar City, il multimiliardario Marc Lore a Telosa negli Stati Uniti, il principe ereditario dell’Arabia Saudita a Neom-The Line. Ognuna di queste nuove città ideali si caratterizza per sostenibilità ambientale, iperconnessione tecnologica, autonomia energetica, mobilità elettrica e tanto verde. Alcune si libereranno quasi completamente del traffico di superficie per affidare gli spostamenti verso tutti i servizi essenziali nel raggio di 5-10 minuti a piedi o in bici dalla propria abitazione.
«Diciamo subito che, quand’anche questi progetti futuristici siano importanti per aprire la strada a soluzioni urbane innovative come lo fu la nostra bellissima Pienza nella sua epoca, è facile intuire che il problema non è costruire nuove città, ma mettere mano a quelle che abbiamo». Ne è convinto Stefano Panunzi, docente di Progettazione Architettonica e urbana all’Università del Molise. «Abbiamo però costruito talmente tanto – prosegue – che la città non può cambiare molto rispetto ad ora. La città del futuro sarà più o meno quella che è oggi, cioè bisogna aggiungere qualcosa e togliere qualcos’altro. In una parola, bisogna rielaborare la città a partire da quello che abbiamo distrutto negli ambiti urbani: la connettività ecologica».
Un argine al cemento In effetti, per favorire la mobilità urbana abbiamo impedito il movimento di tutte le altre specie viventi animali e vegetali. E questo ci ha impoverito. Si tratta allora di riaprire la partita tra la natura e il cemento, di ricostruire le maglie piccole, la rete minuta di quello scambio continuo tra specie diverse, il cui tessuto costruttivo è stato strappato.
Anzitutto bisogna fermare la cementificazione se è vero che in Italia, dove non esiste ancora una legge sul consumo di suolo, il rapporto 2021 dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) segnala il costante aumento di edificazioni nelle aree metropolitane delle maggiori città, al ritmo di 2.400 ettari l’anno, vale a dire all’incirca la superficie di una città come Aosta. Ma anche nelle periferie si è continuato a costruire. «Nella pianura padana, ci sono migliaia di capannoni abbandonati – denuncia l’architetto Stefano Boeri, progettista del celebre Bosco Verticale, l’edificio prototipo di una nuova architettura della biodiversità –. Perché non abbatterli per liberare i terreni dal cemento e dall’asfalto e renderli di nuovo permeabili?»
Il verde, dunque, come cuore pulsante della città futura? Non ha dubbi Stefano Mancuso, direttore del laboratorio internazionale di Neurologia delle piante presso l’Università di Firenze, il quale non perde mai l’occasione di ribadire quanto sia importante il mondo vegetale soprattutto nel contesto urbano e abitativo, partendo da alcuni dati su cui vale la pena riflettere. «Gli animali, di cui gli esseri umani fanno parte, rappresentano solo lo 0,3% delle specie viventi, le piante l’85%. Poi abbiamo un 2% di funghi e il resto sono microorganismi», spiega Mancuso. «Dobbiamo riempire le città di piante e dimenticarci di Pienza e della città ideale del Rinascimento, che era una città monumentale: basta guardare un dipinto per notare che non c’è nemmeno un filo d’erba. Noi dobbiamo immaginare città in cui tutte le superfici sono ricoperte di piante».
E allora come sarà la città del futuro? O meglio, come dovrà essere, se vogliamo sopravvivere alla minaccia di una catastrofe climatica visto che sono le città a produrre 80% di CO2 occupando solo il 2% del territorio mondiale? Intanto dovranno cambiare anche le distanze nelle città. Di questo cominciano a parlare anche i sindaci delle più grandi metropoli come Gualtieri a Roma e Sala a Milano. Entrambi pensano a un contesto urbano diviso in piccoli nuclei dove ci siano tutti i servizi essenziali a un quarto d’ora dalla propria abitazione.
Vicino è bello «Proprio quello che serve – conferma Panunzi –. Bisogna che le nostre città assomiglino il meno possibile a un agglomerato cupo e opprimente tipo Blade Runner. I quartieri vanno frammentati. Non dovremo più spostare o allontanare ciò che non ci serve, perché dovremo essere capaci di riutilizzare o riciclare a livello di piccoli quartieri autosufficienti. Il trasporto pubblico e tutti i servizi di consegna e ritiro merci devono diventare più capillari e devono occupare anche l’aria con droni e aerotaxi. Ma attenzione, noi possiamo fare tutte le macchine elettriche ma poi servono strade, autostrade, parcheggi. Non possiamo pensare solo al costo di una macchina, dobbiamo pensare anche al costo delle infrastrutture. Quindi a sviluppare il car-sharing e ad approfittare della tecnologia che ci darà la possibilità di utilizzare auto a guida autonoma: la prenoti come un taxi, poi quando l’hai utilizzata se ne va da sola in un’apposita area parcheggio». Il caos del traffico, insomma, dovrà sparire. Questo ci permetterà di declassificare molte strade a reti di distribuzione interna, sostituendo l’asfalto con pavimentazioni permeabili.
Inutile dire che le nostre città saranno infrastrutturate da impianti sempre più evoluti: il cablaggio, le reti di monitoraggio, di depurazione e di ricezione dei rifiuti e trasformazione dei materiali. Non dovremo più spostare o allontanare ciò che non ci serve, ma essere capaci di riutilizzare o riciclare a livello di aree che non vadano oltre la soglia dei 10 mila abitanti. Ma le città sono e saranno sempre di più energivore, visto che nel 2050 le abiteranno 7 persone su 10 e ben l’80% del Pil mondiale verrà generato al loro interno.
Tra Blade Runner e Truman Show Come dice l’economista e sociologo Jeremy Rifkin, l’autosufficienza energetica si ottiene abbassando il livello dei consumi e innestando la produzione di energia rinnovabile. A questo proposito è in corso una rivoluzione tecnologica in grado di produrre elettricità e di accumularla in batterie sempre più performanti, «a patto che le grandi multinazionali che operano nell’elettronica tirino fuori dal cassetto progetti destinati a diventare commerciabili solo tra 10-15 anni» avverte Panunzi. Come dire che non si può aspettare di smaltire le vecchie tecnologie per passare alle nuove. Anche per questo il ministro Roberto Cingolani ha sentito il bisogno di dichiarare che «la transizione ecologica potrebbe essere un bagno di sangue». È un discorso serio che va tenuto presente rispetto all’idea di un cambiamento meraviglioso. È più probabile che il cambiamento sia duro e difficile questa volta. E se la città del futuro non assomiglierà a Blade Runner, non sarà neanche il Truman Show, con la sua felicità ebete e falsa.