Attualità

Chi specula sul pane quotidiano. Miniguida alle emergenze alimentari

H2_113_COM_Mela_mondo.jpgIl cibo è l’anello debole della civiltà moderna. Non il web, il petrolio, il terrorismo, lo scontro etnico o l’odio religioso. È la scarsità di cibo il primo fattore destabilizzante come già lo fu per Sumeri e Maya, gloriose civiltà del passato che non risolsero il rapporto con esso e finirono per estinguersi in un tonfo solo: i primi per l’aumentata salinità del suolo, i secondi per fenomeni eccezionali di erosione che si divorarono lo strato fertile di quindici centimetri su cui è possibile l’attività agricola.

Lo stesso rischiamo di fare noi, uomini del Terzo Millennio, e la nostra spada di Damocle, com’è noto, si chiama anidride carbonica liberata nell’ambiente. Ma non solo. Abbiamo a che fare con una molteplicità impressionante di fattori negativi concomitanti (incremento demografico, cambiamento climatico, erosione dei suoli, sovrasfruttamento idrico, riduzione delle riserve agricole, consumi crescenti di carne, spreco) tali da minacciare la nostra stessa sopravvivenza. La scarsità di cibo non è che la sintesi di tutto ciò.

Servirebbero infatti qualcosa come 9,3 miliardi di posti a tavola, da qui al 2050, secondo le più recenti stime dell’Onu, se prendiamo in considerazione che ci riproduciamo al ritmo di 80 milioni di persone in più all’anno (in Nigeria è la media record di sette figli per coppia), mentre la terra offre sempre meno a chi la coltiva, rinsecchisce come un limone spremuto troppo e per troppo tempo. Attualmente siamo in 7 miliardi e gli squilibri, la fame, la penuria d’acqua secondo i più recenti dati sono tutti fattori in crescita.
La domanda globale di cibo lievita anche perché ci sono 3 miliardi di persone che si stanno spostando in alto nella catena alimentare (i cinesi quest’anno consumeranno complessivamente già il doppio di carne degli statunitensi). Il consumo di cereali, che è la spia del problema, si è raddoppiato dal 2005 al 2011 rispetto al quinquennio precedente per effetto di un mix di richiesta di carne (mais e grano vanno in gran parte a foraggiare animali), crescita demografica e uso di biocombustibili.  

Dall’altra parte l’offerta scende a causa dell’impoverimento e della desertificazione dei suoli. Quest’ultimo è un fenomeno evidente soprattutto in Africa, dove le tempeste di polvere sono aumentate di dieci volte nel Sahara negli ultimi cinquant’anni; in Corea già la chiamano la “quinta stagione” mentre in India il 25% della superficie si sta lentamente trasformando in deserto. Di pari passo il calo delle falde acquifere (per il 70% destinate ai campi) lo si nota nel drastico rallentamento della crescita delle aree irrigate registrata dall’inizio di questo secolo (+9%, contro il 200% di cinquant’anni fa). Ciò se unito all’incremento dei prezzi delle commodities, raddoppiati nel 2012 rispetto al 2002-2004, e alla speculazione finanziaria  (argomenti su cui abbiamo già scritto su queste pagine) determina la perdita dell’autosufficienza alimentare in tanti paesi.

Ed ecco, accanto al fenomeno dell’accaparramento delle terre (land grabbing), profilarsi all’orizzonte uno spettro ben più grave, quello del “collasso alimentare”. Usa questa terminologia Lester Russell Brown, uno dei più noti e importanti ambientalisti americani, pioniere dello sviluppo sostenibile. “Il mondo potrebbe essere molto più vicino di quanto comunemente non si creda  a un’ingestibile carestia alimentare”, dice. Il suo grido d’allarme si completa con un appello affinché al più presto si inverta la rotta adottando nuove strategie e modelli di sviluppo. 

L’insicurezza alimentare
Nel suo ultimo libro, “9 miliardi di posti a tavola” (Edizioni Ambiente) Brown incalza i leader politici e l’opinione pubblica mondiale a prendere coscienza che le riserve alimentari globali si stanno velocemente assottigliando: negli ultimi dieci anni i cereali si sono ridotti di un terzo, e sfamano una volta su tre non gli uomini ma il bestiame da allevamento o bruciano nei motori come biocarburanti. Il tempo scarseggia se si vuole evitare che “in questa nuova era alimentare, in cui il cibo è importante come il petrolio e il terreno come l’oro,  ciascun paese faccia per sé”.

Ciò significherebbe una escalation di guerre senza precedenti. È la questione della “sicurezza alimentare”, intesa in un senso quantitativo e non qualitativo (come la intendiamo in Occidente) che deve salire in cima all’agenda dei governanti. “Dopo le due guerre mondiali e la guerra fredda, oggi è la scarsità delle risorse idriche e alimentari il principale fattore di instabilità politica” ha detto Brown intervenendo all’Università di Bologna, dopo essere stato al Forum della Barilla a Milano, alla tavola rotonda su cibo e sostenibilità organizzata dal dipartimento di Sociologia e diritto dell’economia in collaborazione, tra gli altri, con la Fondazione Barberini.
L’organizzazione Save the Children ha calcolato che già il 24% delle famiglie in India, il 27% in Nigeria e il 14% in Perù non tocca cibo per intere giornate e programma la settimana in funzione di questo bisogno primario. 

Clima estremo 
“Per la prima volta gli agricoltori affrontano le conseguenze dirette del cambiamento climatico”, sostiene Brown. “Per ogni grado Celsius in più di temperatura, loro sanno che devono aspettarsi una perdita del 10% della produzione agricola”. Gli eventi atmosferici estremi da temporanei sono diventati la norma ed entro il 2020 – sempre secondo Brown – e non entro il 2050, serve perciò ridurre dell’80% le emissioni di carbonio se si vuole combattere davvero il global warming. Ciò significa una rivoluzione che non può non toccare i nostri modelli di sviluppo e di consumo”.
Già, ma verso quali direzioni? Una speranza potrebbe venire dai cooperatori “che nel mondo – osserva Mauro Giordani, presidente della Fondazione Barberini – sono un miliardo. Il problema è che si tratta di un esercito disperso e culturalmente non omogeneo, dunque non in grado di imprimere la necessaria svolta nel cambiamento dei modelli di consumo”.  Meglio allora optare per la decrescita teorizzata da Latouche? O per la post-crescita di Fabris? Andare verso la prosperità senza crescita di Jackson o sposare il consumerismo critico e consapevole? Roberta Paltinieri, sociologa dei consumi all’Università di Bologna – centro di eccellenza in Italia per lo studio sullo sviluppo sostenibile – propende nel suo ultimo libro, “Felicità responsabile” (Franco Angeli editore), per la responsabilità sociale condivisa in cui trova collocazione anche l’esperienza di Coop. Secondo questa linea di pensiero, la sostenibilità globale e compartecipata può diventare il fondamento delle nostre civiltà.

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