Dal 2017 le piattaforme social fanno un uso sempre più intenso di algoritmi per la lotta alle fake news. Ad approfondire le metodologie che vengono usate sono Alessandro Longo, Marco Martorana e Lucas Pinelli in un articolo pubblicato su www.agendadigitale.eu. Tali sistemi sono fondati sul “deep learning”, cioè su un insieme di tecniche basate su reti neurali artificiali organizzate in diversi strati, “che permettono di fare previsioni e assumere decisioni in modo indipendente”. Siamo nell’avveniristico campo dell’intelligenza artificiale in cui le reti neurali vengono addestrate a fare a meno della supervisione umana, sulla base di modelli. L’88,8% delle pubblicazioni rimosse nel secondo trimestre dell’anno, afferma Facebook – per lo più incitazioni all’odio e al razzismo – sono state scoperte direttamente dagli algoritmi, contro l’80,2% del trimestre precedente, ma nella maggior parte dei casi è pur sempre servito il controllo dell’uomo.
Perché allora, ci si chiede, non è stata fermata l’ondata di fake news e teorie cospirazioniste che ha accompagnato il coronavirus? “Gli algoritmi possono rivelare contenuti simili a quelli che hanno visto prima, ma mostrano i loro limiti quando compaiono nuovi tipi di disinformazione” si sostiene nell’articolo. Nessun modello di apprendimento automatico è stato addestrato per intercettare il “nuovo”, e percià Facebook ha dovuto affidarsi ai revisori umani di oltre 60 organizzazioni partner di “fact checking“, con risultati sicuramente migliorabili. Molti pensano che gli algoritmi dei social – che, com’è noto, fanno soldi sui temi “forti” capaci di suscitare emozioni e polarizzazioni nelle persone – siano congeniali alla diffusione della propaganda e della disinformazione. E pensano che le contromisure adottate finora siano limitate e parziali, a partire dal fatto che gli autori di fake news sono liberi di pubblicare nuovi contenuti o anche il medesimo contenuto ma con un link diverso; altri aggirano facilmente la cancellazione di un video su YouTube facendosi intervistare sui canali di altri utenti e così via. Per intensificare la lotta, Honda, Starbucks, Coca Cola e altri colossi hanno deciso di boicottare Facebook e Instagram, aderendo alla campagna “Stop hate for profit” partita negli Stati Uniti. Sul piano individuale, quando riceviamo una notizia su Whatsapp e altri canali di messaggistica, specie se è troppo buona o troppo cattiva, non dovremmo condividerla d’impulso ma andare a verificare sulle piattaforme che studiano e catalogano le bufale. Mentre molti, troppi, le condividono in automatico: un gesto che, suggeriscono gli psicologi, porta in dote una facile “validazione” personale.