Rallentare la velocità sulle strade è possibile? Pare di sì, visto che ci hanno scommesso Olbia, Reggio Emilia, Copenaghen, Berlino, Bruxelles e molte città in Olanda e nel resto d’Europa. Città che hanno in comune il fatto che in tutte (o quasi) le strade urbane ci sia il limite dei 30 chilometri all’ora. A queste si aggiungeranno presto anche Bologna, dove il sindaco Lepore ha intenzione di ridurre la velocità entro quest’anno in tutta l’area cittadina per arrivare a zero morti da traffico, e Milano, nel 2024, in alcune zone.
È uno strumento, forse il più efficace a nostra disposizione, per fermare la strage sulle strade italiane. Sono ancora lontani, per l’Italia, gli obiettivi europei sulla sicurezza stradale che prevedono il dimezzamento del numero di vittime e feriti gravi entro il 2030 rispetto al 2019. Secondo le stime preliminari dell’Istat, nel semestre gennaio-giugno 2022 si registra, rispetto allo stesso periodo del 2021, un aumento del numero di incidenti stradali con lesioni a persone (81.437 pari a +24,7%), feriti (108.996, +25,7%) e morti entro il trentesimo giorno dal sinistro (1.450 pari a +15,3%). Il che significa in media 450 incidenti, 8 morti e 602 feriti ogni giorno. In questo primo semestre, rispetto al 2019 fissato come base per il monitoraggio degli obiettivi europei, per la cronaca si registra un lievissimo calo: incidenti stradali -2,6%; feriti -6,8%; deceduti -5,5%.
Ma al di là degli scostamenti di qualche numero percentuale da un anno all’altro, e anche se ogni incidente ha una storia a sé, un dato non cambia: a morire sulle nostre strade sono principalmente i soggetti più deboli. Nel 2021, infatti, sono state 229 le vittime in incidenti – una ogni due giorni – in cui sono state coinvolte biciclette e monopattini elettrici con un aumento del 22% rispetto al 2020. L’automobile in sé fornisce maggiore protezione: così in caso di scontro, ciclisti, pedoni e motociclisti ovviamente hanno la peggio.
Utenti deboli o di valore? «Ma dovremmo riflettere – spiega Francesco Moledda della Fondazione Sicurstrada-Unipolis – sull’ingiusta definizione che viene data dei pedoni e dei ciclisti, ma anche dei giovani, degli anziani e dei motociclisti, come “utenti deboli della strada”, che si sta provando a superare promuovendo la definizione alternativa di “utenti vulnerabili”. Perché la condizione di pericolo sperimentata da queste categorie di cittadini quando si muovono sulla strada è da ricercare nella loro vulnerabilità. Ci ha pensato Matthew Baldwin, coordinatore della sicurezza stradale e della mobilità sostenibile per la Commissione europea, a proporre magistralmente di superare anche questa definizione. Lui, infatti, suggerisce di riferirsi a pedoni e ciclisti come “utenti della strada di valore” e come tali di trattarli, perché camminando e andando in bicicletta contribuiscono direttamente anche a ridurre l’inquinamento atmosferico, la congestione e il cambiamento climatico, oltre che a limitare i danni complessivi dell’incidentalità in termini di lesioni e decessi».
Ed ecco allora che spunta l’opzione della lentezza, dei 30 all’ora come limite di velocità massimo, raccomandato anche dall’Organizzazione mondiale della Sanità. «Sì, perché è l’unico modo – spiega Matteo Dondé, esperto in pianificazione della mobilità e riqualificazione degli spazi pubblici – per fermare una strage quotidiana che ormai caratterizza solo le città italiane. Se invece riduciamo la velocità a 30 km orari, abbiamo l’effetto immediato di dimezzare il tempo di arresto di un’automobile. Se investo un pedone ai 50 all’ora sulle strisce, c’è una certa probabilità che muoia, per essere chiari. Ai 30 all’ora no».
La mobilità attiva ci fa bene Nelle nostre città a 50 all’ora, chi manderebbe il proprio figlio a scuola da solo, in bicicletta o a piedi? Pochissimi, magari solo nei piccoli paesi. Eppure – come ha di recente ricordato Alessandro Tursi presidente di Fiab – una mobilità attiva, fin dall’età scolare nei tragitti casa–scuola ha effetti importanti anche sulla salute dei ragazzi che soffrono già di eccesso ponderale in età scolare, con una percentuale di bambini sovrappeso del 20,4% e di bambini obesi del 9,4%.
Matteo Dondé cita su tutte Bruxelles, una “città 30” dal gennaio del 2021 che oggi comincia a tirare le somme: «Riduzione del 50% dei morti e dei feriti gravi. Perché con la riduzione della velocità la città diventa più sicura ed è più sicuro muoversi a piedi o in bicicletta. La mobilità attiva diventa più attrattiva. E potremo tutti camminare di più, come raccomanda l’Oms».
Sulla necessità e l’efficacia della Zona 30 è d’accordo anche Moledda: «L’European Transport Safety Council, organizzazione europea di cui siamo membri come Unipolis dal 2020, ha a lungo sostenuto una gerarchia di priorità a triangolo inverso con gli utenti della strada più vulnerabili in cima, seguiti dal trasporto pubblico, con il trasporto motorizzato privato in fondo. La realtà nella maggior parte delle città europee oggi è ancora l’opposto, ma ci sono segnali di cambiamento. Oltre a Bruxelles anche Parigi ha fatto una mossa simile e la Spagna va verso questa direzione. Questo è un buon inizio, ma il limite da solo non basta. Occorrono anche infrastrutture più sicure come piste ciclabili separate e utilizzabili anche dai monopattini elettrici, interventi essenziali per creare un sistema di trasporto sicuro e funzionante per tutti. La chiave è abbracciare la cultura della consapevolezza più che della sanzione».
Corri corri, ma dove arrivi? Intanto, però, il governo ha potato i fondi per le ciclabili: il taglio è di 94 milioni e porta all’azzeramento del fondo. Secondo i dati dell’Osservatorio Asaps (portale della sicurezza stradale) sono almeno 103 i ciclisti morti nei primi sei mesi del ’22. E dal rapporto “Non è un paese per bici”, realizzato da Clean Cities, Fiab, Kyoto Club e Legambiente, emerge che le città italiane hanno una media di appena 2,8 chilometri di ciclabili ogni 10 mila abitanti, e si investe 100 volte di più sull’auto che sulla bici. «Ma se tutta la città va ai 30 all’ora – commenta l’urbanista Dondé – la separazione tra auto e cicli non servirebbe più. Edimburgo, ad esempio, che è una città 30, ha raddoppiato i ragazzi che vanno a scuola in bici senza realizzare un metro di ciclabile. Perché più si riduce la velocità, più si può condividere la strada».
Eppure sono molti gli argomenti addotti a sfavore di una soluzione che in altre città europee ha dato ottimi risultati. Primo tra tutti quello relativo alla possibilità che aumenti la congestione del traffico. «Partiamo dal concetto – prosegue Dondè – che le città italiane già ora sono tra le più congestionate del mondo. Roma è seconda solo a Bogotà, per dire. Dobbiamo considerare, inoltre, che il 50% dei percorsi effettuati in città è tra i 3 e i 5 chilometri. Se su questi percorsi riduciamo l’uso dell’automobile, aumenterà la quota della mobilità attiva con più persone che usano bici e i propri piedi, perché la città è diventata più sicura, e dunque la congestione diminuisce. Consideriamo anche nelle ore di punta, nelle città italiane, la velocità oraria a meno dei 20 chilometri orari. La stessa velocità di una carrozza dell’Ottocento». E quindi ci sarebbe solo da guadagnarci, ad andare ai 30.
La giusta velocità conviene Altra obiezione alla riduzione della velocità è quella relativa all’inquinamento. Le auto a velocità ridotta consumano molto di più, dicono i detrattori, e l’andatura giusta per inquinare meno è tra i 90 e i 100 all’ora. «Tutte cose giustissime – spiega Dondé – ma è impossibile in città tenere queste velocità senza frenare mai, senza semafori o rallentamenti dovuti al traffico e vari stop and go. La verità è che noi acceleriamo e freniamo continuamente. Quindi i consumi di carburante sono maggiori. Con un’andatura più fluida e a velocità ridotta consumeremmo di meno, soprattutto per pneumatici e freni, principali responsabili delle polveri sottili». Uno studio della Emission Analitics ha rilevato che l’inquinamento prodotto da pastiglie dei freni e usura dei pneumatici può arrivare a essere 1.000 volte peggiore di quello prodotto dal normale scarico di un’auto.
Ma saranno in grado gli indisciplinati italiani di seguire una regola così stringente, quando talvolta non viene neppure rispettato il limite dei 50 all’ora? «I dati parlano chiaro — spiega Moledda —:
le principali cause di incidentalità stradale nel nostro paese sono guida distratta o andamento indeciso (15,4%), mancato rispetto di precedenza o semaforo (14,3%) e velocità troppo elevata (10%). In termini di educazione stradale occorre certamente lavorare su questi aspetti, ma altrettanto prioritario è intervenire su consapevolezza, informazione e cultura del rispetto reciproco. Deve passare il concetto che la strada è un bene comune dove tutti possiamo e dobbiamo difendere il nostro diritto di muoverci, ma con la consapevolezza di avere anche dei doveri verso gli altri, che magari decidono di muoversi in modo diverso dal nostro». Oltre ai controlli, serviranno anche attraversamenti rialzati, dossi, chicane, per impedire alle auto di prendere velocità.
Per questo la strategia chiave sta nel preparare il terreno. Le città a 30 all’ora dovranno intervenire con la giusta deterrenza contro chi viola le norme, ma dovranno agire anche con quello che Dondé chiama “urbanismo tattico”. Ovvero: «Prendere un quartiere e intervenire con elementi rimovibili a basso costo che rendano le strade più sicure. Alla fine dell’esperimento tutti firmeranno per rendere definitivi quegli elementi rimovibili. La chiave è vivere questo nuovo modello della lentezza non come un limite imposto ma come una chance per riqualificare la città. Con strade finalmente trasformate in una democrazia dello spazio pubblico, piuttosto che terreno di una guerra tra cittadini, come sono ora».