“Guardi, io sto viaggiando su un’auto ibrida. Faccio 33 chilometri con un litro, il doppio della mia auto precedente: alla fine del mese sono tanti soldi risparmiati, sa?». Enrico Giovannini è uno studioso pragmatico. Professore ordinario all’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, dove insegna Statistica e Analisi e politiche per lo sviluppo sostenibile, ex presidente dell’Istat e per due volte ministro, da ultimo delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili nel governo Draghi. Oggi, da cofondatore e direttore scientifico dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS), che mette in rete oltre 300 soggetti della società civile italiana in nome della sostenibilità, tra cui Coop, conferma: la crisi climatica è qui. Ma oltre che temerla, possiamo affrontarla e cogliere l’opportunità di una trasformazione positiva per l’ambiente, l’economia e la società, insieme.
Professore, il clima in Italia è cambiato?
Certo, è la scienza che lo dice: nel mondo la temperatura è già aumentata di 1,1 °C rispetto ai livelli preindustriali, in Italia di 2 gradi. Il che non vuol solo dire che fa caldo, che pure è un problema molto serio, visto che l’anno scorso sono state 18 mila le morti legate al caldo in Italia, il record europeo. Gli eventi meteorologici estremi sono aumentati moltissimo ovunque e l’Italia ne è particolarmente colpita, con una frequenza e un’intensità mai viste nella storia recente. Si sta realizzando esattamente quello che gli scienziati ci dicono ormai da decine di anni e che non abbiamo voluto ascoltare, con fenomeni probabilmente irreversibili per decenni. Ma c’è un elemento ancora più preoccupante: l’accelerazione della crisi climatica è molto più veloce del previsto. Rischiamo di arrivare a un incremento ulteriore della temperatura di 1,5° già nel 2034, invece che, come ipotizzato dagli scienziati solo poco tempo fa, nel 2050.
Si parla sempre più spesso di inflazione climatica: il clima impatta in maniera diretta sui prezzi del cibo?
Assolutamente sì. L’inflazione è legata proprio alla non linearità di questa crisi ambientale. È chiaro che i fenomeni climatici estremi e imprevedibili che abbiamo visto in Italia, come la mancanza di pioggia e le alluvioni, distruggono i raccolti e dunque riducono al lumicino l’offerta di alcuni prodotti. In questi casi ci sono solo due opzioni: rinunciare a consumarli o importarli. Il che spesso significa vedere, a parità di qualità, aumentare il loro prezzo, oppure ridurre la qualità del prodotto consumato. Un mercato così caotico e irregolare è anche più esposto alle speculazioni. Inoltre, queste trasformazioni dell’ambiente stanno impattando anche sull’industria agroalimentare. Si pensi che in Italia, nelle zone dove si realizza il culatello, mancano ormai elementi fondamentali per la stagionatura tradizionale: la nebbia e l’umidità.
Anche il clima politico è diverso? Giorgia Meloni ha dichiarato che la sostenibilità ambientale deve andare di pari passo con quella economica e sociale, e che bisogna tutelare la natura, ma con dentro l’uomo…
L’ASviS è nata per promuovere il raggiungimento dei 17 Obiettivi dell’Agenda 2030 dell’Onu per lo sviluppo sostenibile, che comprendono più dimensioni: ambientale, economica, sociale e anche istituzionale. Parliamo infatti di sviluppo sostenibile, non di decrescita felice. Affrontare la crisi ambientale significa esattamente puntare a una riconversione della nostra economia capace di accompagnare anche le trasformazioni sociali. Non dovrebbe neppure esserci bisogno di precisarlo, ma, detto ciò, bisogna operare urgentemente per trasformare il sistema esistente, non per rallentare la trasformazione a tutto vantaggio dei nostri competitor che hanno già scelto di investire sulla sostenibilità.
Secondo l’Istat, Infocamere e tutti gli osservatori che si occupano di questi temi, molte imprese italiane, sia autonomamente sia grazie alle politiche europee, hanno già scelto di andare verso la decarbonizzazione, la trasformazione ecologica e digitale per assicurarsi un futuro. E quelle orientate verso la sostenibilità sono più innovative e aumentano redditività e profitti. Sono dati incontrovertibili e ci dicono sia che la transizione si può fare, sia che è conveniente farla.
Ovviamente le politiche pubbliche sono decisive per far sì che questa transizione sia condotta in modo adeguato, riducendo i rischi per i più deboli, a partire dai lavoratori dei settori chiamati alla transizione. Nel 2000, quando l’Unione europea (cioè i governi nazionali e il Parlamento europeo) ha dato mandato alla presidente della Commissione Ursula von der Leyen di attuare il Green Deal non ha varato una strategia ambientalista, ma un grande piano di sviluppo economico e sociale, con enormi benefici anche per l’ambiente, e quindi per noi cittadini. Certo, in questo come in tutti i processi di conversione e in qualsiasi politica industriale ed economica, ci sono dei costi e bisogna giustamente domandarsi chi paga.
Appunto: c’è il rischio che a fare le spese della riconversione della transizione ecologica siano i lavoratori e le fasce più marginali della popolazione?
La conversione ha dei costi, ma anche l’inazione ne ha, e molto alti, soprattutto per i più deboli e i più fragili, come mostrano tanti rapporti, a partire da quello di molti anni fa curato dall’economista Nicholas Stern. Giustamente ci preoccupiamo di chi potrebbe perdere il lavoro e, in assenza di politiche di ricollocamento adeguate, non trovarne un altro. Ma in Europa abbiamo 300 mila morti premature all’anno legate all’inquinamento, di cui 52 mila solo in Italia. Questi costi non li consideriamo?
Bisogna ristrutturare il nostro modello di sviluppo, perché anche i costi di quello attuale hanno già ora riflessi tragici soprattutto sui più poveri. I problemi esistono, ma vanno e possono essere affrontati con politiche adeguate, partendo dai dati di fatto e calcolando tutti i costi, anche sociali, del nostro modo di produrre, di spostarci, di abitare le nostre case.
Proprio sulla decarbonizzazione dei trasporti e le case green l’Italia ha espresso un orientamento diverso in Europa.
Il settore dell’automotive è esemplare. Secondo alcune stime, nel settore in Italia sarebbero a rischio 60-70 mila posti di lavoro, secondo altre stime 13 mila. Per cominciare sarebbe utile che qualcuno, magari il governo stesso, chiarisse di quante persone realmente parliamo e quantificasse il rischio. Visto però che ai trasporti si devono un quarto delle emissioni nocive, possiamo dire che l’inquinamento ad essi dovuto produca circa 13 mila morti l’anno in Italia. Dunque, a spanne, se non facciamo nulla, quando nel 2035 non si potranno più fabbricare auto nuove a benzina e diesel, avremo un massimo di 60 mila potenziali posti di lavoro perduti e 150 mila morti certe da inquinamento.
La verità è che il mercato in termini tecnologici ha già scelto l’elettrico, basta guardare gli spot delle automobili in tv per accorgersene: non solo delle marche italiane ma soprattutto di quelle straniere, tedesche in particolare. E la nostra industria della componentistica per chi lavora, se non per la Germania? Alcuni produttori stanno puntando a trasformare anche i trasporti pesanti, gli autobus, e i tir, per non parlare dei furgoni e delle moto; perché non produrli qui?
È possibile aiutare le nostre imprese a riconvertirsi, in modo da evitare che questo salto tecnologico faccia perdere l’occupazione, ma la stessa cosa vale per il passaggio alle energie rinnovabili. Elettricità Futura di Confindustria stima che, se si facesse un investimento forte sulle rinnovabili, si creerebbero oltre 500 mila posti di lavoro. Ora bisogna imprimere una svolta di politica industriale. Con il governo Draghi abbiamo stimolato la domanda di autobus elettrici da parte dei Comuni, ma anche incentivato la produzione in Italia e oggi a Foggia ha aperto una fabbrica che fa esattamente queste cose. Quindi, si tratta di andare avanti stimolando sia la domanda sia l’offerta.
Oggi però acquistare un’auto elettrica non è da tutti, visti i prezzi…
Certo, non tutti si possono concedere il lusso di acquistare un’auto elettrica o fare ristrutturazioni edilizie complesse, ma si possono trovare, grazie alla finanza, adeguate soluzioni per spalmare nel tempo il costo dell’investimento iniziale, che viene comunque poi ripagato da risparmi energetici, come si fa con i mutui per l’acquisto di una casa. Si possono poi disegnare, come avviene in altri paesi europei, vantaggi fiscali e incentivi: sconti sulle assicurazioni, parcheggio gratuito sulle strisce blu… Non è banale ma neppure impossibile: servono politiche che indichino anche ai privati in quale direzione procedere. La transizione ecologica può permetterci di fare un grande salto anche economico e occupazionale, migliorare la salute di tutti e ridurre i costi dei disastri ambientali.