Nei mesi estivi è stato la star di social e tv, ha trionfato in pescheria, nei piatti di ministri e nelle cucine dei grandi chef, mentre un imprenditore brianzolo ha iniziato persino a usarne il guscio per fare tappezzerie sostenibili. Ma ora che l’ondata di popolarità è andata, cosa resta del granchio blu? Potrebbe essere solo una specialità “esotica” in vendita al banco del pesce, ma la questione è molto più seria.
Il crostaceo venuto dall’Atlantico (e non ieri, il primo avvistamento risale al 1949) continua a fare danni sulle nostre coste, in particolare nell’Alto Adriatico, dove ha messo in ginocchio il comparto dell’allevamento di vongole, cozze e molluschi. Con il rischio, se non si interviene adeguatamente, che questo sia l’ultimo Natale in cui potremo gustare i nostri amati spaghetti alle vongole. Tra Goro e Scardovari, sul Delta del Po, da dove arriva l’80% della produzione nazionale di questi bivalvi, il predatore ha già decimato gli allevamenti, e sta ora divorando le uova che sarebbero dovute servire per il ripopolamento della specie. «Non riusciamo a seminare, e questo pone un serio punto interrogativo sulla produzione dell’anno prossimo, perché il granchio mangia di tutto, rompe reti e protezioni, ed è così diffuso in questa zona che non si riesce a eradicare», dice Antonio Gottardo, responsabile del settore agroalimentare e pesca di Legacoop Veneto.
La vendita del Callinectes sapidus, questo il nome scientifico dell’animale, è consentita in Italia da tempo ma, per arginare il problema, ad agosto il governo ha varato un decreto che prevede incentivi economici per le imprese ittiche dedite alla cattura e allo smaltimento del granchio blu. E così il crostaceo è arrivato sui banchi del pesce e nei supermercati, inclusi quelli di Coop, ed è stato perfino esportato dall’Italia negli Stati Uniti.
«È un prodotto dal buon sapore, con valide caratteristiche nutrizionali e un rapporto qualità/prezzo vantaggioso: dai 5-6 euro al chilo per quello intero, ai 9-10 per quello già pulito», spiega Claudio Mazzini, responsabile commerciale del settore per Coop Italia. «I consumatori lo apprezzano e lo comprano in entrambe le versioni, ed è buono anche semplicemente cotto in padella con olio e prezzemolo». Anche chef stellati ne decantano il sapore dolce e la polpa morbida, ma mangiarlo non basta per frenare quella che è ormai una vera e propria emergenza ambientale ed economica.
Solo tra Goro e Scardovari lavorano 3.200 imprese di acquacoltura che hanno subito perdite per l’80%. «Anche convertendo la produzione, come molti stanno facendo, non si riesce a colmare le perdite. Il rendimento del granchio è molto più basso, sia per volumi che per valore: siamo nell’ordine del 5%», dice Gottardo, precisando che, al momento in cui scriviamo queste righe, «dei 2,9 milioni di euro stanziati dal governo sotto forma di incentivi non abbiamo ancora visto nulla».
I pescatori chiedono che venga dichiarato lo stato di emergenza e in risposta il ministro per l’Agricoltura Francesco Lollobrigida ha annunciato indennizzi per altri 10 milioni e spiegato di avere ottenuto dall’Unione europea una deroga per praticare la pesca a strascico entro le tre miglia, come strumento di lotta all’alieno. Peccato che questo tipo di pesca sia fortemente dannosa per gli ecosistemi e per le specie ittiche, tanto da essere appunto bandita nelle acque comunitarie.
«Direi, senza troppi giri di parole, che aprire la pesca a strascico entro le tre miglia è un vero azzardo – spiega Ernesto Azzurro, dirigente di ricerca del Cnr-Irbim di Ancona, l’istituto del Consiglio Nazionale delle Ricerche per le Risorse Biologiche e le Biotecnologie Marine -. Sappiamo infatti che questo tipo di pesca, in un ambiente così vulnerabile come quello costiero, avrebbe conseguenze negative per tutto il settore della pesca, oltre che sulla biodiversità. Si rischierebbe inoltre di innescare conflitti con la pesca artigianale, senza contare che il limite delle tre miglia è stato introdotto dall’Unione Europea». Come se ne esce? «Quella del granchio blu – dice Azzurro – non può essere trattata come un’emergenza, nel senso che non è un problema che può essere risolto in forma definitiva, in breve tempo e con delle misure drastiche. Per ora non abbiamo segnali che possano farci supporre che l’invasione regredirà spontaneamente: altre esperienze in Mediterraneo mostrano come la specie abbia stabilito popolazioni permanenti e, probabilmente, ci toccherà imparare a conviverci».
Quello che accade oggi sul Delta del Po, d’altra parte, si è già verificato in altri paesi del Mediterraneo come ad esempio in Spagna nel delta del fiume Ebro, e il problema è stato affrontato. «Il granchio blu lì c’è ancora, ma i pescatori hanno imparato a gestirlo, senza tra l’altro ricevere fondi pubblici. Il crostaceo viene pescato in grandi quantitativi con metodi sostenibili, grazie all’utilizzo di nasse che lo catturano in modo selettivo. La specie viene poi venduta in tutta la Spagna. Gli spagnoli sono stati bravi ad attivare una filiera che funziona a partire dallo stesso anno in cui è iniziata l’invasione, il 2016, e ora la specie rappresenta una nuova risorsa commerciale per tutto il paese».
A “salvare” il comparto iberico è stata dunque una strategia a 360 gradi, che manca per ora nel Belpaese. Secondo Gottardo, bisognerebbe agire su tre fronti: «Attuare una strategia per il monitoraggio e la pesca selettiva delle femmine, che depongono milioni di uova; creare una filiera per la trasformazione, perché per fare grandi volumi bisogna vendere il granchio già in polpa; sostenere le imprese che devono proteggere gli allevamenti. Se tutto questo non verrà progettato a tavolino, il settore sarà in gravi difficoltà». E il prossimo anno ci accorgeremo di avere preso un granchio.