Il far west della terra
Paesi ricchi e multinazionali si accaparrano terreni fertili nel sud del mondo. Una speculazione che determina una nuova forma di colonialismo
La cosa ci interessa da vicino perché il cibo, come l'acqua, è indispensabile per la sopravvivenza umana. E il cibo, come l'acqua, se scarseggia (per via di desertificazione, cambiamenti climatici, incremento della popolazione) o se aumenta di prezzo (come conseguenza della crisi dei mercati agricoli del 2007-2008 e del 2011) si trasforma in una ghiotta, e certa, preda per i pesci più grossi: gli Stati più ricchi, preoccupati di garantirsi la sicurezza alimentare o i bio-carburanti, e la finanza internazionale, preoccupata di far profitti in un periodo di profonde crisi e incertezze.
Il "mercato del cibo e delle risorse naturali", com'è stato chiamato, non solo è già una realtà, ma rappresenta uno dei business strategici del futuro che anche inconsapevolmente – acquistando un fondo pensione per esempio – potremmo contribuire a foraggiare, alimentando i fondi sovrani di alcuni Stati o le azioni delle corporation a caccia di futures. L'equazione è semplice: più c'è scarsità, più il valore aumenta. E se stiamo parlando di beni alimentari di base, o di superfici irrigue, l'investimento è sicuro e di lungo periodo.
Così la grande finanza, a partire dalla crisi di Wall Street del 2007, ha spostato i suoi capitali dai prodotti dell'hi-tech alle commodity (prodotti agricoli di base) che si scambiano alla Borsa di Chicago. E da allora i prezzi del grano e della pasta sono schizzati alle stelle affamando interi popoli che per mangiare spendono ben oltre la metà dello stipendio e non il 20% scarso degli europei. Lo stesso discorso, come vedremo, si applica ai terreni e alle grosse aziende agricole che vengono comprati o affittati a prezzi stracciati nei paesi del Sud del mondo ("land grabbing") per specularci o fare export. Un fenomeno in crescita.
L'era della scarsità
Nel 2050 saremo infatti 9 miliardi di uomini sulla Terra e la produzione di cibo dovrà aumentare tra il 70 e il 100%, con gli stati emergenti del Bric (Brasile, Cina e India) a premere sui mercati. Già oggi quasi tre miliardi di persone vivono in regioni dove la domanda di grano, mais, soia, zucchero e oli vegetali supera l’offerta e cresce al ritmo del doppio. E già oggi la volatilità dei prezzi dei beni di prima necessità, cominciata a metà anni Novanta, provoca tensioni e innesca rivoluzioni come la recente Primavera araba dimostra. "Nell'era della scarsità in cui siamo – ammonisce Paolo de Castro, presidente della Commissione Agricoltura e Sviluppo rurale del Parlamento europeo – le politiche agricole devono tornare in cima all'agenda della politica mondiale".
Una presa di coscienza lentamente, ma sta maturando. Un importante risultato è stato raggiunto il mese scorso in sede Fao, a Roma (vedi intervista), con l'accordo sulle Linee guida per i regimi fondiari e l’accesso alle risorse ittiche e forestali del pianeta (reperibili all'indirizzo web www.fao.org/nr/tenure/voluntary-guidelines) di cui i primi beneficiari saranno i piccoli contadini del Sud del mondo. Nel documento, 96 paesi più la Ue hanno messo nero su bianco l'invito ai governi a rispettare le comunità locali e a non scatenare il "far west della terra". Sì, perchè il cibo da una parte è una bomba sociale, dall'altra è una gallina dalle uova d'oro per gli speculatori che comprano e rivendono terra fertile. Speculatori ma anche semplici investitori in giro per il mondo a coltivare l'orto altrui, che costa pochissimo e produce un sacco.
E così mentre si studiano strategie condivise per salvare il pianeta dalle tante crisi (economica, climatica, ambientale), su altri piani proliferano fenomeni incontrollati di depredazione delle ricchezze disponibili. Per descriverli si sono usate formule forti come "colonialismo del XXI secolo". "pirateria agro-alimentare", "assalto alla terra".
L'assalto alla terra
Lo chiamano "land grabbing", accaparramento delle terre, e nei termini in cui si manifesta rappresenta una novità. Negli ultimi quattro o cinque anni questa caccia ad enormi superfici di terreno (anche di milioni di ettari) nei paesi del Sud del mondo è esplosa. Protagonisti ne sono governi e società di paesi come la Cina, l’India, la Corea del Sud, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi, il Qatar, alcuni stati emergenti come Brasile e Russia, multinazionali che comprano o affittano grandi estensioni coltivabili soprattutto dell'Africa e poi nell'ordine dell'Asia e dell'America Latina, sottraendo a quei popoli letteralmente la terra sotto ai piedi. "E facendolo gratis per i primi vent'anni come nella Repubblica Centroafricana o a bassissimo prezzo come in Mozambico, Etiopia o Senegal – denuncia Stefano Liberti, giornalista e scrittore autore di 'Land grabbing', Minimum Fax 2010, che è stato sul posto per il suo reportage – dove un ettaro è disponibile a 1 dollaro o a 50 centesimi l'anno. In Africa ho assistito a delle vere e proprie aste al massimo ribasso per attrarre investimenti e valuta estera, con i governi a farsi la guerra tra di loro".
Per Liberti la rapina della terra è un fenomeno in fase iniziale destinato a crescere del doppio o del triplo nei prossimi anni. "Sono queste le stime delle grosse società finanziarie sui capitali investiti". Tuttavia qualche segnale positivo c'è. "Negli ultimi mesi stanno affiorando forme di resistenza che ai tempi del mio reportage non avevo visto. Il governo del Senegal, sulla spinta di proteste e manifestazioni di contadini costate delle vite umane, è stato costretto a congelare la concessione di migliaia di ettari che aveva dato a una ditta italo-senegalese per coltivare patata dolce per eco-carburanti. E la stessa Fao, con le sue Linee guida, ha rivisto negli ultimi due anni le proprie posizioni prima troppo sbilanciate a favore degli investitori in agricoltura".
Ma quando si può parlare di commercio e quando invece di "rapina" della terra? Nel secondo caso l'agro-business avviene senza il consenso informato delle comunità locali, senza trasparenza contrattuale, senza congrui indennizzi, senza vincoli di destinazione e in barba alle ricadute economiche e sociali sui territori, che al posto di progredire finiscono per aggravare il deficit alimentare di interi popoli. "E quando parliamo di accaparramento di terre – rincara la dose Chantal Jacovetti, rappresentante del più importante sindacato contadino del Mali ed esponente dell'organizzazione internazionale La Via Campesina – ricordiamoci che è come se parlassimo anche di water grabbing, accaparramento di acqua".
Secondo le stime più accreditate, fornite dall'International Land Coalition e da Oxfam International (promotori di campagne per arginare il fenomeno, al pari del World Social Forum 2011 nel cui ambito è stato firmato l'appello di Dakar), una superficie pari a 7 volte quella dell’Italia, più o meno equivalente all’Europa nord-occidentale, è stata acquistata o affittata nell'utimo decennio per un periodo che va da 40/50 fino a 99 anni. In totale si tratta, a seconda delle fonti, di superfici dai 203 ai 227 milioni di ettari alienate fuori dai loro confini naturali.
Corsa ai bio-carburanti
Ma per quali scopi si fa "shopping" con la terra altrui? Secondo l'Enea, principalmente per produrre cibo, mangimi o agro-combustibili, tutti prodotti che poi vengono trasportati nei paesi dei compratori di solito in cambio di capitali o della realizzazione di infrastrutture. "E spesso purtroppo con la compiacenza dei governi – aggiunge Liberti – che quando non sono corrotti, svendono la terra in cambio di una vaga promessa di tecnologia e sviluppo agricolo".
Nella maggioranza dei casi, però, è la produzione di carburanti alternativi al petrolio a scatenare la corsa. E ad essere chiamati in causa qui sono gli Usa e la stessa Ue, che entro il 2020 ha chiesto che il 10% del trasporto su gomma sia alimentato da carburanti rinnovabili. Sempre secondo l'International Land Coalition, il 37% delle negoziazioni avrebbero come finalità la produzione di bio-carburanti, seguiti (11,3%) dalla produzione agricola e (8,2%) dalla produzione di legno ed estrazioni minerarie.
Le contromisure finora adottate dai governi sono insufficienti o tardive. "Alcuni Stati come la Liberia o l'Argentina – osserva amaramente Francesca Romano, funzionaria Fao – stanno cercando di porre un limite legislativo al passaggio dei terreni sotto capitali stranieri. Ma lo stano facendo tardi, quando i buoi sono ormai scappati dalle stalle". Per valutare gli effetti che avranno le Linee guida delle Nazioni Unite, occorre aspettare tempo. Mentre sugli spostamenti di capitali, beh, qui come sempre conterà la legge al di sopra di tutte le altre: quella dei mercati.
Claudio Strano