Stefano Sanna, docente di politica economica al dipartimento di giurisprudenza dell’Università di Pisa, ci aiuta a capire il costo del cambiamento climatico, nel vero senso della parola. Quanto costa ai paesi il cambiamento climatico? Nessuno è in grado di fare questo calcolo. Il cambiamento climatico modifica le basi su cui si sviluppano tutte le attività umane. I 188 stati che hanno firmato l’accordo sul clima di Parigi del 2015 hanno convenuto di cominciare a spendere 100 miliardi di dollari l’anno per contenere e abbattere le emissioni di gas serra. La World Bank stima che già oggi ci sarebbe bisogno di 160 miliardi di dollari per le azioni di mitigazione e altri 90 per l’adattamento alle variazioni climatiche in atto.
Venendo a quanto pesa nelle tasche dei cittadini: su quali voci di spesa incide maggiormente? II danni del cambiamento climatico incidono sulla spesa dei cittadini per la salute e per il miglioramento delle condizioni di vita economiche e sociali. Ciò che, invece, si spende per combattere l’effetto serra costituisce un investimento ad alto valore aggiunto che ha ricadute positive per tutti.
Quale modello economico potrebbe sostenere politiche ambientali a difesa del pianeta e della salute dei suoi abitanti? L’ambiente è un bene pubblico e anche un bene comune, non si può né comprare né vendere. C’è bisogno che le comunità nazionali e la comunità mondiale definiscano obiettivi comuni condivisi e si rendano disponibili a destinarvi risorse crescenti. Purtroppo la consapevolezza di questa complessità non è abbastanza diffusa e prevale l’atteggiamento del free-rider: si usufruisce di un bene, ma si vorrebbe che i costi li pagassero “altri” o uno stato a cui poi non si vogliono pagare le imposte. Il mercato potrà essere solo lo strumento con cui si realizzano gli obiettivi concordati.
Esiste un mercato sostenibile della lotta al cambiamento climatico? Il mercato non possiede alcun meccanismo per la creazione di beni pubblici e quando è incontrollato porta al degrado dell’ambiente, degrado che aumenta con l’espandersi del mercato stesso. Per le imprese si hanno economie esterne e per la società delle diseconomie. Mi spiego meglio con un esempio: se un impresa può inquinare, può scaricare in mare, in un fiume o nell’aria i suoi residui di lavorazione, ha dunque un’ “economia esterna” al suo processo produttivo non dovendo installare impianti di depurazione che sarebbero costosi e quindi trae un vantaggio nel suo conto economico. Ciò che è un vantaggio per l’impresa è, però, uno svantaggio, una “diseconomia” appunto, per la società che deve subire gli effetti dell’inquinamento e anche i costi conseguenti. Ecco che, quando si riesce a calcolare i danni ambientali come costi dell’attività produttiva, si modificano tutte le scelte di convenienza e di opportunità.
Lo scioglimento dei ghiacci dell’Artico (causato dal cambiamento climatico) sta portando alla luce miniere a cielo aperto di materiali preziosi che fanno gola alle grandi potenze, come Cina e Russia, che lottano per accaparrarsi quelle terre e fare perforazioni. Proprio quelle perforazioni che hanno prodotto lo scioglimento dei ghiacci. Un circolo vizioso e una forma di nuova colonizzazione e sfruttamento di terre… Se continuiamo a dividerci tra paesi buoni e paesi cattivi si va poco avanti. E poi qual è il paese che anche in tema ambientale è senza peccati per poter scagliare la prima pietra? I problemi ambientali sono di dimensione mondiale e si possono affrontare solo attraverso la cooperazione internazionale. La cosa non è facile e il “clima” attualmente non è favorevole, ma non vi sono alternative.