Il gas nella roccia: avete presente il grisù, quella miscela esplosiva spesso letale per chi lavora nelle miniere di carbone?
Se sostituite i minatori con dei trivellatori, e li immaginate scavare come dei pazzi nel più profondo sottosuolo degli Stati Uniti, alla ricerca non del grisù (che però è della stessa famiglia di idrocarburi) ma di enormi bacini di “shale gas” e “shale oil”, cioè di gas e petrolio estratti in modo non convenzionale “da rocce argillose” (“scisti” letteralmente), ecco che avrete una cartolina di ciò che sta avvenendo a ritmi vorticosi – a partire dal 2003, con una forte accelerazione negli ultimi tre anni – in Nord Dakota, Texas, Pennsylvania, Ohio, Colorado.
Sono solo alcuni della trentina di stati a stelle e strisce in cui è in corso la più grande campagna di trivellazione della storia con l’utilizzo del “fracking” (fratturazione idraulica), una tecnologia fortemente invasiva introdotta in modo rudimentale già nel 1947 – quando lo sfruttamento delle rocce era noto da tempo – ma resa produttiva solo negli anni Ottanta. Tre anni fa il processo d’industrializzazione, reso nel frattempo conveniente dall’aumento del prezzo del greggio, ma sempre fortemente impattante sull’ambiente, è arrivato a comprendere anche il petrolio, oltre al gas.
Sotto il profilo squisitamente economico, stiamo parlando di un “nuovo Eldorado” che sta rivoluzionando i rapporti di forza e cambiando la stessa geografia politica mondiale. Come? Riducendo all’osso la dipendenza energetica americana, scesa già sotto il 20% nel 2012, il minimo degli ultimi vent’anni anche per effetto della debolezza dei consumi. E la prospettiva è quella di una completa indipendenza da qui al 2030. In ascesa sulla carta sono stati come la Cina che dispone di un enorme potenziale di shale gas (i maggiori giacimenti al mondo, più una politica di deregulation) e a seguire Argentina, Sudafrica, Australia e Canada, con Polonia e altri paesi dell’est europeo nelle vesti di “emergenti”, frenati però dal fatto che nel Vecchio Continente l’estrazione costa tre o quattro volte di più: 11 dollari in British Thermal Unit, contro i 3,40 degli Usa.
A pagare il conto di questa rivoluzione (o restaurazione?) energetica – che ci distrae dagli investimenti in fonti alternative – sarebbero la Russia grande produttrice di gas, con cui è in corso difatti una rinnovata “guerra fredda”, i paesi nordafricani e quelli del Medio Oriente. E dopo l’11 settembre, quest’ultima più che una notizia è uno dei principali obiettivi degli americani, i primi a volere spostare l’asse del pianeta dalle aree politicamente più instabili, ad altre più diffuse.
E la green economy? Ma se, alla fine – come altri invece credono – ciò non dovesse avvenire o almeno non in queste proporzioni (l’OCSE ha ridotto stime troppo ottimistiche sulle riserve mondiali di gas non convenzionale, attualmente pari a 487 trilioni di metri cubi contro i 217 del convenzionale; e molto dipenderà dal caro petrolio, dalla domanda interna e dagli investimenti), di certo la corsa a questi idrocarburi mescolati alla roccia ci sta ributtando indietro nell’era più “convenzionale” che ci sia, quella del carbon fossile e della CO2, rinviandone il declino. Nel 2012 non a caso si è registrato il record della produzione di petrolio degli ultimi 25 anni negli States, dai cui pozzi nel 2014 sgorgheranno 8 milioni di barili di “oro nero” al giorno (+23%). Con buona pace della green economy. E proprio mentre Obama, nel suo discorso sullo Stato dell’Unione, ha rilanciato le rinnovabili e pensavamo tutti di allontanarci dalla “società del carbone” in nome della sostenibilità, delle fonti pulite, del solare e dell’abbandono del nucleare. E nonostante i cori di protesta dalle popolazioni locali e dei movimenti ambientalisti che invocano, quanto meno, il principio di precauzione.
A questi si unisce Mariagrazia Midulla, responsabile energia di Wwf Italia, che sottolinea “la poca trasparenza di queste operazioni” ricordando che “nelle udienze in America le compagnie petrolifere oppongono il segreto industriale invece di fornire gli elenchi delle sostanze chimiche impiegate”. Ma “in attesa che l’economia dell’idrogeno decolli, si devono fare concessioni e prendere decisioni” rispondono, letteralmente, le potenti lobby del settore come testimonia “Gasland”, docu-film di Josh Fox premiato dalla critica, disponibile anche in rete (vedi box). Tra i più fieri avversari della perforazione idraulica troviamo Yoko Ono, che ha fondato “Artists against fracking”, Paul McCartney, Robert De Niro, Susan Sarandon. Un tema di attualità di cui si discute anche al cinema con il film di Gus Van Sant, “Promise Land”, con Matt Damon, uscito in queste settimane.
L’idrofratturazione è giudicata anche da autorevoli studi molto pericolosa per l’ambiente (enorme spreco di acqua, contaminazione delle falde idriche attraverso il cocktail di sostanze chimiche iniettate) e la salute delle persone (danni fisici, rischio di esplosioni). Sotto accusa anche per la micro-sismicità localizzata che innesca e di cui si è parlato molto anche da noi in occasione del terremoto in Emilia, che ha reso il fracking un argomento di dominio pubblico.
A fine processo, inoltre, restano sul terreno metalli tossici e scorie radioattive che dovrebbero essere trattati con le acque reflue ma ciò non sempre avviene e non sempre è prescritto nei protocolli di lavorazione. E poi molti si chiedono, più in generale: fin dove potremo spingerci nel fare violenza alla terra che ci ospita? Conviene davvero, all’umanità, farsi guidare da “guerre economiche” mettendo a rischio il proprio stesso futuro?
Nel ventre della terra Gli idrocarburi non convenzionali, a differenza di quelli convenzionali, non sono intrappolati, per cui non è sufficiente individuarli, “stapparli” e loro risalgono per pressione naturale lungo i pozzi. Sono dispersi in enormi quantità (almeno quattro volte quelle accertate, perché la vita esiste sulla terra da tempi immemorabili) ad oltre 1.000 e fino a 6.000 metri di profondità, in piccole fessure dentro formazioni rocciose molto estese e trasversali: per farsi un’idea, il bacino Marcellus, sotto l’Ohio e la Pennsylvania – dove nel 2005 sono cominciate le perforazioni economiche di shale gas – è grande quasi quanto l’Italia. Serve appunto il “fracking” (hydraulic fracturing) per farsi largo in senso orizzontale con fluidi ad alta pressione e agenti chimici, spingendo il metano e altri gas in superficie.
I tre principali idrocarburi di questa famiglia provengono da argille (shale), da carbone (coal bed) e da sabbie o arenarie compatte (tight). Ma per tutti il gioco vale la candela da quando il petrolio è andato alle stelle e le tecniche per “mungere” la terra si sono perfezionate. Negli Usa il prezzo è crollato e il gas da scisti è diventato un bene da esportazione.
American dream Il fracking è un potente volano per l’economia a cui è difficile resistere. Secondo la Energy Information Administration, potrebbe garantire l’autarchia degli States per un secolo. Stiamo andando dunque verso un mondo in… fracking? Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia e grande esperto di mercati energetici, è convinto piuttosto che “siamo di fronte a un fenomeno tipicamente americano, difficilmente replicabile”. “Solo Stati Uniti e Canada sono in grado di tramutare queste riserve in risorse sfruttabili”, spiega. “Gli Usa hanno un patrimonio di carte geologiche dettagliatissimo, avendo perforato oltre 3 milioni di pozzi per produrre idrocarburi convenzionali, e una cultura industriale unica al mondo che sono fattori indispensabili per questo tipo di estrazione. Poi ci vuole un tessuto di piccole e medie imprese che non hanno ad esempio la Cina o la Polonia”.
Nel 2012 gli Usa hanno ricavato da argille fratturate il 25% circa dei 670 miliardi di metri cubi di gas prodotti, ritornando ad essere i primi produttori al mondo. L’abbondante raccolto stenta ora a trovare collocazione anche perché scarseggiano i rigassificatori. In questo periodo le navi di Obama stanno esportando il gas naturale liquefatto (Gnl) soprattutto in Giappone, che dopo la catastrofe nucleare di Fukushima è divenuto un grande importatore. “L’Italia invece – aggiunge Tabarelli – resta un mercato lontanissimo. E nella stessa Europa, rigassificatori o no, il gas americano non arriverà nei prossimi anni”. Tuttavia una conseguenza indiretta c’è, ed è l’indicazione data dall’Autorità dell’Energia ad abbassare i nostri prezzi che a confronto sono di circa quattro volte superiori.
Ma che fine farà la diversificazione delle fonti energetiche? Secondo Tabarelli “il futuro per i prossimi 50 anni sarà comunque fossile, non c’è alternativa se consideriamo l’enorme richiesta di energia e l’avanzare dei paesi emergenti”. Della stessa opinione Leonardo Maugeri, ex Eni e ora docente ad Harvard, favorevole al fracking purché “si evitino aree troppo popolate come l’Italia”. Sul tema il dibattito è acceso e in quesrti casi le posizioni si radicalizzano. “Grazie allo sviluppo delle fonti alternative e alla crisi siamo riusciti a ridurre, negli ultimi tre anni, di appena il 5%, portandolo all’80%, il nostro fabbisogno dal carbone e di più è difficile immaginare”, taglia corto Tabarelli.
Europa in ordine sparso Nel Vecchio Continente gli investimenti in shale delle compagnie petrolifere, comprese Eni e Sorgenia, si concentrano soprattutto in Polonia e Ucraina, paesi con leggi più permissive e una minore sensibilità ambientale; inoltre con il problema storico di ridurre la dipendenza politico-economica dalla Russia. L’Europa non ha una posizione univoca e più che di una messa al bando si tende a una severa regolamentazione della materia: se da una parte il commissario all’energia, il tedesco Ghunter Oettinger, si mostra assai possibilista (“tra pochi anni il fracking sarà possibile anche senza l’uso di agenti chimici. E allora ci sarà una svolta per questa tecnologia”, ha dichiarato di recente), dall’altra Francia e Bulgaria hanno opposto una moratoria, la Gran Bretagna ha sospeso le autorizzazioni e in molti altri stati il fracking è di fatto difficilmente praticabile. Una stretta l’ha annunciata di recente anche la Germania.
In Italia non è consentito “sparare” acqua e fluidi nel sottosuolo. Siamo un paese idrogeologicamente e sismicamente instabile e non è il caso di aggiungere altri elementi di rischio. Le comunità locali, inoltre, si oppongono alla presenza di impianti industriali. Ciononostante esistono piccole attività catalogabili come “non convenzionali” fin dai tempi dell’Eni di Enrico Mattei: in Maremma come sull’Appennino Tosco-emiliano come in Polesine dove è noto il fenomeno dell’autoconsumo di piccole quantità per sfuggire al fisco.
Da noi gli idrocarburi si estraggono da oltre un secolo col metodo classico, e ora sulla scia del decreto Sviluppo del ministro Passera, l’attività è in crescita. Ci sono 70 trivelle ai blocchi di partenza – denuncia Legambiente – pronte ad aggiungersi alle nove piattaforme che operano al largo delle coste”. In una corsa a uno dei beni da sempre più preziosi a cui nessuno vorrebbe rinunciare: l’energia.