Ambiente

Emergenza idrica, troppi buchi nell’acqua

Fontanelle a secco a Roma e razionamenti in altre città d’Italia. Non ci siamo dimenticati dell’emergenza acqua dell’estate scorsa. Anche perché il 2017 si è confermato come l’anno più siccitoso in Italia degli ultimi due secoli, con precipitazioni inferiori del 30% sulla media storica. Strascichi di quella situazione si sono fatti sentire in Puglia fino a pochi mesi fa e in alcune aree collinari del Meridione ancora oggi.

C’è il pericolo, ci si chiede, di un’altra estate a rischio sul fronte dei rifornimenti idrici? O qualcosa, nel frattempo, si è fatto e siamo un po’ meno meteo-dipendenti? Proviamo a rispondere a questa domanda che riguarda noi – che siamo i primi consumatori di “oro blu” in Europa con 245 litri pro capite al giorno – e non la vicina Africa, che con meno di 10 litri è agli ultimissimi posti.

Intanto sull’Italia di acqua continua a caderne sempre poca. Il 2018 si è aperto con circa 1/3 di precipitazioni in meno (-29%) rispetto alla media storica con crolli del 50% nel centro Italia e del 45% nel Mezzogiorno, mentre nel Nord c’è stato un aumento del 5% anche grazie alle abbondanti nevicate. L’analisi della Coldiretti conferma gli effetti del cambiamento climatico: siamo un paese a rischio desertificazione, con situazioni preoccupanti come in Sicilia dove il Consiglio dei Ministri ha dichiarato, questo inverno, lo stato di emergenza. La Sicilia è anche la regione simbolo per i disservizi, con il 40% dei giorni di riduzione o sospensione sul totale delle erogazioni in Italia. Più in generale il 9,4% delle famiglie italiane lamenta irregolarità nell’erogazione dell’acqua.

Tornando al clima, il quadro generale in primavera è fortunatamente mutato. Il nostro paese è stato preso di mira dalle perturbazioni atlantiche e se questo trend proseguirà, la siccità dell’estate 2017 potrebbe essere soltanto un ricordo.

Se la siccità ritorna Proprio ora, in giugno, scopriremo se avremo tutti l’acqua e senza interruzi0ni. È questo infatti il mese in cui se si dovesse presentare una situazione tipica di fine estate, come lo scorso anno, l’emergenza sorgenti si farebbe più concreta. Utilitalia – la federazione che riunisce l’80% delle aziende che operano nei servizi pubblici di ambiente, energia elettrica, gas e appunto acqua – spiega che «le aziende cercano di gestire i flussi con due o tre mesi di anticipo. Di norma – aggiunge Giancluca Spitella, direttore dell’area comunicazione – il calo dei bacini idrici si registra a partire da settembre, al termine dei mesi estivi in cui i consumi e l’evaporazione sono più elevati. Ci pensano le precipitazioni autunnali a ristabilire i livelli». Questo di norma, ma quando l’orologio salta – e gli sbalzi climatici lasciano presumere che ciò succederà spesso in futuro – entra in crisi la captazione, cioè il prelievo dalle sorgenti. Ad oggi l’85,6% degli approvvigionamenti per uso civile proviene dal sottosuolo, il 14,3% da corsi d’acqua e invasi artificiali, e lo 0,1% da acque marine o salmastre.

E che si fa in questi casi? Per tamponare si adottano misure temporanee che vanno dalla chiusura di due fontanelle pubbliche su tre, a Roma, a interventi sulla pressione della rete per ridurne le perdite. Un po’ come succede per una camera d’aria bucata: la si strizza o la si rilascia a seconda delle forature. Questo riguarda l’acqua dai rubinetti, che però rappresenta una minima parte del tutto. Il 70% infatti ha impieghi in agricoltura e nell’industria.

«Ci sono interessanti sviluppi – continua Utilitalia – riguardo il riuso delle acque reflue che andrebbe incentivato secondo gli stessi principi dell’economia circolare. Un altro tema importante è quello della dissalazione, che oggi ha costi inferiori che in passato. Isole come Ventotene hanno realizzato un dissalatore per fronteggiare le crisi e altri ne stanno nescendo in tutta Italia».

Le falle della rete e chi la ripara Ma non sarebbe più logico riparare i buchi della rete prima di fare i dissalatori? La percentuale di perdite lungo i 500 mila chilometri di tubature è altissima. L’ultimo rapporto di Utilitalia (Blue Book 2017) le quantifica nel 39%, con un peggioramento rispetto per esempio al 2012 (35,6%, dati Istat). Al Sud e nelle isole le dispersioni arrivano fino al 50%, al Nord si attestano sul 26% e al Centro al 46%. L’acqua ritorna nelle falde, ma è acqua potabile, già trattata. Il danno economico che ha calcolato l’Istat è di 4 miliardi di euro e lo paghiamo tutti noi. Gli oltre 3 miliardi di metri cubi sprecati potrebbero soddisfare le esigenze idriche di 40 milioni di persone.

È chiaro che durante un’emergenza lo sperpero è ancora più intollerabile. E non è certo un dato fisiologico. L’Italia a confronto con l’Europa ha acquedotti vecchissimi: il 60% delle infrastrutture ha oltre 30 anni, il 25% supera i 50 anni, e solo il 4% è stato posato negli ultimi cinque anni. Ai ritmi attuali di rinnovamento – 3,8 metri per ogni chilometro di tubature – ci vorrebbero 250 anni per sostituire condotte malconcie e rappezzate. Perché, come pensano in molti, il bagno lo rifai solo quando è necessario: è un’operazione costosa, politicamente infruttuosa, che darebbe risultati nel medio periodo. I Comuni perciò non mettono soldi e le aziende, cui sono affidati i servizi idrici attraverso gli Ato (Ambiti Territoriali Ottimali), vorrebbero dei ritorni economici nel breve periodo. Ciascun gestore fa a modo suo ed è libero di non intervenire.

Se guardiamo poi alla ripartizione degli investimenti in funzione del recupero del gap infrastrutturale, scopriamo altri paradossi. Il fabbisogno finanziario pianificato del comparto idrico dal 2016 al 2019 è stato stimato complessivamente in 12,7 miliardi (relazione annuale dell’autorità del 2017): il 19% destinato alla distribuzione, il 25% alle fognature e il 28% alla depurazione; il resto per altre voci. L’importo è significativo per le fognature e la depurazione (che per il 12% dei cittadini è ancora assente) anche perché l’Italia sta affrontando due condanne e una procedura di infrazione da parte dell’Ue e cerca di evitare il peggio. Le sanzioni sono pesanti. Complessivamente il governo le stima in «circa 480 milioni di euro l’anno dal 2016 e fino al completamento delle opere». È iniziata perciò la corsa ai depuratori e alle reti fognarie, dopo 50 anni di rinvii, e ogni giorno di ritardo ci costa 700 mila euro. Così come in passato la priorità era raggiungere tutta la popolazione tramite gli acquedotti, oggi è urgente provvedere alla costruzione di depuratori e fognature. «Se infatti il 95% è ormai attaccato a un acquedotto, quasi un terzo degli scarichi urbani non viene ancora depurato», osservano in Utilitalia. Ma ora il clima sta cambiando e non siamo più tanto sicuri nemmeno di questo. «Il 19% del fabbisogno per la distribuzione (circa 600 milioni annui) risulta una quota insufficiente», fa notare Edo Ronchi, presidente della Fondazione sviluppo sostenibile. «Occorre rivederlo, insieme alle pianificazioni che l’hanno generato, alla luce della gravità del nuovo contesto».

Dal 2014 gli investimenti almeno un po’ sono ripresi, ma quanto servirebbe per migliorare tutto il sistema? Fa i conti il presidente di Utilitalia, Giovanni Valotti: «Cinque miliardi all’anno sarebbe il minimo necessario per coprire il fabbisogno di infrastrutture. E siamo a meno della metà. Se vogliamo cambiare marcia e modernizzare il settore, dovremmo pensare a un adeguamento graduale della tariffa facendo attenzione a tutelare le fasce deboli della popolazione». Di questi 5 miliardi, 1 andrebbe alla depurazione dei reflui urbani, 1 al risanamento dei bacini superficiali e 3 circa per opere e manutenzione straordinaria. Il governo nella legge di Bilancio 2018 ha approvato un “piano invasi” contro la siccità da 50 milioni l’anno fino al 2022. Solo una parte di questi andrebbero a tappare i buchi ma ancora non si è iniziato a spendere questi soldi in attesa di un piano d’interventi. Utilitalia intanto ha chiesto alle forze politiche, sulla scia di quanto successo per l’energia con la Sen, una Strategia idrica nazionale (Sin) con un orizzonte più ampio, decennale.

E il singolo cittadino, nel frattempo, che cosa può fare nel suo piccolo? Adottare comportamenti anti-spreco (vedi decalogo), ricordarsi che l’acqua è un bene pubblico indispensabile e che ciascuno produce una propria “impronta idrica” che, al pari di quella energetica, va controllata. A cominciare dalla tavola, dove si forma l’89% di tale impronta. Ci vogliono 15.500 litri per una bistecca di 1 kg, 1.200 litri per una pizza, 82 per una mela e 10.000 litri, quando siamo finalmente pronti per uscire, per i jeans che indossiamo più altri 13.000 litri per lo smartphone con cui rimanere collegati al meteo. Nella speranza che piova lo stretto necessario per lavarci, senza però rovinarci le vacanze…

Tag: acqua, siccità, acquedotto, rete idrica, emergenza idrica

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